Puntuale come l’esattore delle tasse, giovedì un “alto funzionario dell’UE”, in vista dell’Eurogruppo che si riunirà lunedì, ha “avvertito” che la ratifica del trattato sul Mes è “ormai completa in quasi tutti gli Stati. Noi abbiamo fiducia nell’Italia e in altri Paesi sul rispetto dei loro impegni”. Ha poi aggiunto che “il Mes è importante per la resilienza economica dell’Ue” e sul caso italiano, ha precisato: “non c’è ragione di essere scontenti, sarà un’amichevole promemoria”.
Fino a venerdì sera Italia, Francia, Germania e Portogallo erano gli ultimi 4 Stati a non aver ratificato il Trattato che disciplina il Mes, nella versione riformata e firmata dai rispettivi Governi a fine gennaio 2021. Curiosa coincidenza, questa del contemporaneo ritardo delle prime tre economie dell’eurozona. Proprio quelle che, con i rispettivi accordi bilaterali, consentono a Emanuel Macron, Mario Draghi e Olaf Scholz un rapido coordinamento sui dossier più scottanti della governance europea.
E l’urgenza della ratifica, e della conseguente piena efficacia giuridica, del Mes non è tanto legata – come da mesi vogliono farci credere – alla anticipata entrata in vigore del prestito a favore del fondo di risoluzione unico per le crisi bancarie. Non si capisce dove sia la fretta, poiché tale fondo, alimentato dai contributi delle banche, è già avviato a disporre di circa 55 miliardi, a cui si aggiungerebbe eventualmente una somma di pari importo a titolo di “paracadute” da parte del Mes. E non pare ci siano grandi crisi bancarie all’orizzonte.
Il motivo della fretta è un altro. Il Mes riformato porta con sé anche dei chiari, stringenti e netti requisiti per l’accesso alle linee di credito precauzionali, rese disponibili a favore degli Stati membri che hanno perso, o stanno per perdere, l’accesso ai mercati. In base a precisi parametri quantitativi, lo Stato membro richiedente sarà assoggettato a condizioni meno gravose – definite con una semplice lettera d’intenti – o più gravose – contenute in un protocollo di intesa (memorandum of understanding) generalmente contenente un programma di aggiustamento macroeconomico. Il pilastro di parametri è proprio il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita, della cui riforma si discuterà lungo tutto il 2022, ed è facile immaginare a quale linea potrebbe avere accesso l’Italia.
Il Mes riformato deve essere pronto al più presto possibile perché è funzionale al progetto che cova sotto la cenere da almeno un anno e mezzo. Risale infatti all’ottobre 2020 il primo paper – redatto dall’economista Stefano Micossi, direttore generale dell’Assonime, con incarichi di vertice presso la LUISS e il prestigioso think tank bruxellese CEPS – ampiamente noto solo nei ristretti cenacoli degli economisti addetti ai lavori, di cui di seguito vi riveliamo i tratti salienti. Un altro paper è stato poi pubblicato a marzo 2021 e l’ultimo è del novembre scorso, in cui si tirano le fila del dibattito e si propone il prodotto finito. Un progetto pronto per essere cantierato. Manca solo l’impresa appaltatrice: il Mes.
La lettera di Draghi e Macron del 23 dicembre al Financial Times non è stata quindi un fulmine a ciel sereno, ma l’apposizione del sigillo finale a tale intenso lavoro di elaborazione accademica e lo studio del professor Francesco Giavazzi ed altri, a cui si fa riferimento in quella lettera, non è affatto originale ma – per la parte relativa alla sistemazione del debito pregresso – attinge a piene mani agli studi qui citati.
Il problema in esame è la sorte dell’ingente debito pubblico accumulatosi nell’attivo della BCE in conseguenza della crisi pandemica. Solo per l’Italia, parliamo di circa 350 miliardi previsti entro fine marzo, che salgono a 720 miliardi calcolando dall’inizio degli acquisti nel 2015, circa il 30% dei titoli pubblici in circolazione.
Il progetto parte dalla premessa che le prospettive di inflazione crescente faranno venire progressivamente meno le esigenze di una politica monetaria espansiva. In questo scenario, la BCE non avrebbe più alcuna giustificazione per detenere quei titoli e dovrebbe progressivamente venderli, altrimenti violerebbe i Trattati. Tale operatività determinerebbe una notevole instabilità sui mercati finanziari, specialmente in relazione ai titoli di Stati membri ad elevato rapporto di indebitamento (si veda alla lettera “I” come Italia). A questo punto entrerebbe in campo il Mes che, in quote annuali, arriverebbe a comprare titoli pari al 20/25% del PIL dell’eurozona. Qualcosa oscillante tra 2,5 e 3,3 trilioni (intorno a 500 miliardi per l’Italia), che sarebbero detenuti e rinnovati alla scadenza in perpetuo.
Per le condizionalità, si dovrà fare pieno riferimento al famigerato allegato III del Trattato (così come riformato), in precedenza illustrate.
A Micossi fortunatamente non sfugge che – con lo spostamento dei titoli pubblici dalla BCE al MES – verrebbe meno il flusso di dividendi che Bankitalia verso al Tesoro ogni anno grazie agli interessi incassati sui titoli in portafoglio ma, incredibilmente, derubrica il problema come un fatto marginale. Dati alla mano, riteniamo che su circa 55/60 miliardi di spesa annua per interessi, 8/9 miliardi siano circa il 15%, non esattamente bruscolini.
Tutti gli eventuali ostacoli di ordine legale, sono puntualmente affrontati e superati da Micossi, secondo il quale il Mes agirebbe ai sensi dell’articolo 18 del Trattato, che consentirebbe gli acquisti di titoli italiani sul mercato secondario al fine di “salvaguardare la stabilità finanziaria dell’eurozona” e nello studio si sostiene la piena compatibilità di tale operazione con tutta una serie di articoli dei Trattati (TFUE nello specifico).
Cosa potrebbe impedire il perfezionamento di questo progetto?
Come detto all’inizio, il fatto che Francia, Italia e Germania non abbiano ratificato non appare affatto casuale. Nel 2012, in occasione della ratifica del Trattato originario, una sentenza della Corte Costituzionale tedesca giunta a ratifica ormai avvenuta da parte di tutti gli altri Stati dell’Eurozona, pose una importante riserva interpretativa su due articoli del Trattato del Mes e, per non riavviare il processo di ratifica, si giunse all’incredibile risultato di avere un Trattato che ha lo stesso significato per 18 Paesi ed un significato diverso per la Germania. Anche questa volta siamo nella stessa situazione, essendo pendente da giugno scorso un ricorso alla Corte di Karlsruhe da parte dei liberali tedeschi.
È quindi ragionevole ipotizzare che, in questa tornata, la Francia, ma anche l’Italia, non si vogliano trovare nella stessa imbarazzante situazione e stiano appositamente rallentando il processo di ratifica. Per l’Italia potrebbe esserci il problema aggiuntivo di una maggioranza parlamentare non proprio compattamente d’accordo sulla ratifica.
Ora il pallino è nelle mani del Presidente Draghi. Vorrà davvero mettere il Paese nelle mani di una “bad bank”? Le prime risposte arriveranno lunedì.
(Versione integrata e ampliata di un articolo pubblicato dal quotidiano La Verità)