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Basf

Dopo Basf, anche Volkswagen mollerà lo Xinjiang cinese?

La società chimica tedesca Basf si ritira dallo Xinjiang per i sospetti di violazione dei diritti dei lavoratori. Nella regione cinese è presente anche Volkswagen. La Germania deve rivedere i rapporti economici con la Cina? I fatti e l'analisi di Galietti

L’annuncio del colosso della chimica tedesca BASF di voler rinunciare alla joint venture nella regione cinese dello Xinjiiang sospettata di aver abusato dei diritti umani dei dipendenti musulmani non è un evento isolato ma segna un’escalation nel ripensamento di una Germania che vive oggi la simbiosi con l’economia cinese come un problema politico e morale. Ecco cosa ha deciso BASF e la riflessione dell’esperto di scenari strategici Francesco Galietti.

Cosa succede nello Xinjiiang

“Incompatibile con i nostri valori”. Con questa motivazione riportata dal Financial Times BASF la settimana scorsa ha annunciato la sua intenzione di vendere le sue quote in due impianti in joint venture ubicati nello Xinjiiang i cui addetti sono accusati di abusi ai diritti umani.

La decisione arriva pochi giorni dopo che i media tedeschi avevano svelato come lo staff di Xinjiiang Markor Chemical Industry, partner di BASF in quelle strutture, avesse effettuato visite a casa delle famiglie della minoranza islamica degli uiguri per acquisire prove da fornire poi alle autorità.

E sebbene BASF abbia reso noto l’esito negativo dei propri audit sulla condotta dei dipendenti cinesi, il partner Markor non nasconde quei misfatti tanto che i resoconti di quelle visite, come riportato da Der Spiegel, figurano nelle dichiarazioni sulle responsabilità sociali d’azienda.

Ritorsioni?

“La Cina ha bisogno dei prodotti di BASF”, dichiara al Ft Jeanne Werning, capo di ESG Capital Markets presso Union Investments, sostenendo che la compagnia non subirà ritorsioni da Pechino per la sua decisione di uscire dallo Xinjiiang.

E Volkswagen?

Ma adesso gli occhi sono puntati su chi potrebbe seguire la scia di BASF, quella Volkswagen che in Cina fa quasi metà del suo fatturato e nello Xinjiang ha un impianto finito da tempo sotto i riflettori.

E VW proprio questa settimana ha fatto i conti con le accuse di lavoro forzato in quella regione del Turkestan orientale dove vivono e sono perseguitati gli uiguri: Sospetti concretissimi che l’hanno spinta ad annunciare di aver avviato colloqui con il suo partner cinese SAIC sulla “futura direzione del business”.

Bye bye Angela

“Si sta delineando un nuovo paradigma”, spiega a Start Magazine l’analista di scenari strategici Francesco Galietti, fondatore di Policy Sonar.

Per Galietti è arrivato ormai all’epilogo il lungo ciclo durato sedici anni e caratterizzato dalla leadership e dalla peculiare visione dell’ex cancelliera Angela Merkel. Un tempo “in cui sia l’establishment tedesco che il mondo imprenditoriale erano concordi nel puntare tutto sul fare business con la Cina”.

“Ora però la classe politica tedesca ha capito che Cina e Occidente non sono più affatto conciliabili. Scontrandosi però con la riluttanza dei grandi gruppi a sposare questa presa di coscienza”.

Abbiamo dunque da un lato una pugnace ministra degli Esteri e un non meno combattivo collega alle Finanze che tuonano contro Pechino per questioni come le violazioni dei diritti umani e l’inquinamento selvaggio. Dall’altra parte invece abbiamo i vertici di colossi come Volkswagen e BASF che dichiaravano fino a non molto tempo fa di fregarsene, minimizzando addirittura le questioni sollevate dal governo.

Ma a questa nuova fase, osserva l’analista, pare ora subentrare un nuovo ciclo “in cui anche le imprese tedesche hanno capito che la Cina non è più l’Eldorado ma un grande problema”.

E questo trend emergente è molto visibile proprio nel settore dell’automotive, “dove la Cina è passata dall’essere un grande mercato dell’export per i produttori tedeschi all’essere ormai il principale rivale grazie a un’offerta ormai robusta di auto elettriche a costo contenuto”.

Rivali e non complici, pensa ora qualcuno dalle parti del Reno.

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