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Perché il Def di Draghi e Franco è francamente già vecchiotto

Che cosa è emerso dalle audizioni di Bankitalia, Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) e Corte dei Conti sul Def. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Sono passati solo dieci giorni dalla presentazione da parte del governo del Documento di Economia e Finanza (Def) e già quel piano non vale più nemmeno la carta su cui è stato scritto.

Dapprima, dopo soli due giorni, è arrivato il bollettino economico di Bankitalia a dimostrare che le previsioni del governo sono state fatte guardando lo specchietto retrovisore, cioè basando su presupposti – come la rapida conclusione della guerra in Ucraina – la cui probabilità appare oggi davvero modesta.

Ma sono state le audizioni parlamentari avvenute nella giornata di giovedì ad assestare il colpo finale ad uno scenario di politica economica che sembra descrivere un’altra era geologica. Bankitalia, Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) e Corte dei Conti, si sono succedute davanti alle Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato per esprimere le loro rispettive valutazioni sul Def, in vista dell’approvazione della risoluzione parlamentare prevista per mercoledì, manifestando significative perplessità sul sentiero di crescita (o di decrescita) previsto dal governo.

Tutti i soggetti intervenuti hanno premesso che si tratta di valutazioni soggette ad un’incertezza “elevatissima”, ma la scelta del governo di posizionarsi nella parte più favorevole della forchetta delle previsioni, costituisce un’ipoteca pesantissima sugli spazi di manovra disponibili in presenza di un’emergenza, che appare già in atto.

Serve a poco dichiararsi pronti a fare tutto il necessario, quando si parte già con il piede sbagliato, ancorati ad uno scenario tra l’ottimistico e l’irrealistico. Un’ipotesi più pessimistica di PIL avrebbe consentito da subito di presentarsi in Parlamento per richiedere uno scostamento di bilancio. Invece il governo ha voluto aggrapparsi disperatamente a quanto programmato già con la legge di bilancio a dicembre.

È Bankitalia, in particolare, ad evidenziare che le previsioni di crescita del PIL riportate dal Def (+3,1% nel 2022) “presuppongono che gli effetti più rilevanti della guerra in Ucraina si manifestino nella prima metà dell’anno e che il prodotto torni a espandersi rapidamente già dopo l’estate, quando recupererebbe i livelli pre-pandemia”. Da via Nazionale sottolineano che questo quadro tracciato dal Governo è simile allo scenario “favorevole” presentato pochi giorni prima nel Bollettino economico della Banca d’Italia, e fanno notare che nella stima del governo “i rischi sono orientati considerevolmente al ribasso”. Insomma, una manica di pericolosi ottimisti. È pur vero che anche nel Def sono indicati degli scenari peggiorativi in cui la crescita del PIL è vista comprimersi fino ad una media di mezzo punto percentuale nel biennio ‘22/’23. Si tratta del caso “in cui la carenza di gas rispetto alle importazioni complessive fosse pari a circa il 18 per cento nel 2022 e al 15 nel 2023”. Ma siamo sempre in presenza di una, sia pur modesta, crescita che invece è totalmente assente nello scenario più severo previsto da Bankitalia (interruzione delle forniture di gas russo a partire da maggio/giugno per un anno, con compensazione solo parziale di altri fornitori) in cui il PIL decresce di circa mezzo punto percentuale sia nel 2022 e 2023.

A parità di scenario, sia nel 2022 che nel 2023 il governo nel Def è comunque un punto percentuale più alto di Bankitalia che, con imbarazzo, evidenzia lo scostamento, osservando che “qualitativamente queste valutazioni (del governo, ndr) sono non dissimili da quelle contenute negli altri scenari ipotizzati nel Bollettino economico, che pure se ne discostano per stime puntuali che non escludono sviluppi ancora più sfavorevoli”.

L’eccessivo ottimismo dei numeri del Def spicca nel confronto con le previsioni emesse mercoledì dai 5 maggiori centri di ricerca economica tedeschi: in caso di interruzioni delle forniture di gas russo, il Pil tedesco calerebbe del 2,2% nel 2023 e ci sarebbe la perdita di 400.000 posti di lavoro. Considerando che la Germania è solo leggermente più esposta dell’Italia verso la Russia, forse al Mef dovrebbero dare un’occhiata ai calcoli dei loro colleghi tedeschi.

Non risparmia qualche frecciatina pure l’Upb che ha validato le previsioni del governo “pur situandosi in prossimità del limite superiore dell’intervallo di previsione” e non esita ad affermare che l’accresciuta incertezza delle ultime settimane “allo stato non appare ancora tale da respingere lo scenario ipotizzato nel DEF”. All’Upb hanno dovuto ricorrere alla doppia negazione per far capire che la preoccupante evoluzione delle guerra in Ucraina li ha portati ad un passo dal cestinare tutto. In ogni caso, hanno anticipato che in base a loro studi di prossima pubblicazione, il protrarsi del conflitto avrebbe “un impatto per l’economia italiana non trascurabile”.

Di fronte a tali prospettive, scarseggiano le risorse da mettere in campo per fronteggiare un’emergenza ormai conclamata.

Veniamo infatti da un anno in cui la pressione fiscale è aumentata di oltre mezzo punto al 43,5 per cento, superando di qualche decimale perfino i livelli del governo Monti. Il piano è quella di ridurla al 43,1% nel 2022 e scendere fino al 42,2% nel 2025. Tagli così modesti, da non essere nemmeno percepibili dalle famiglie e dalle imprese.

L’obiettivo di deficit/PIL fissato al 5,6% per il 2022, consente un modesto intervento di circa 10,5 miliardi, metà dei quali già impegnati con i decreti legge del primo trimestre. Restano circa 5/6 miliardi. Poco più di nulla. Per il resto si procede con il pilota automatico, come se la sospensione del Patto di Stabilità fosse già terminata. L’avanzo primario di antica memoria e il deficit/Pil entro il 3% sono già previsti per il 2025, così come il rientro del debito/Pil sul livello pre pandemico entro il 2030. È proprio Bankitalia a chiamare la fine della ricreazione, evidenziando che “al fine di contenere le ripercussioni sui conti pubblici occorrerà rendere i prossimi interventi di sostegno all’economia più selettivi”. Anche se poi si tiene la porta aperta, precisando che “escludendo misure straordinarie eventualmente imposte dall’emergenza, la situazione dei conti pubblici richiede che qualsiasi altro nuovo intervento trovi adeguata copertura”. Ci permettiamo di osservare che quelle “misure straordinarie” definite come “eventuali”, sono già in ritardo e che fondare tutte le speranze di crescita sugli investimenti del PNRR, la cui spesa peraltro non decolla, potrebbe riservare brutte sorprese.

D’altronde se il ministro Daniele Franco, sempre in audizione, ha ammesso di non volere lo scostamento “per non avere problemi sui mercati finanziari” – fornendo così un incredibile assist a chi in futuro vorrà picchiare duro sui BTP – significa che il governo ha un solo piano, quello di sperare nello stellone italico.

Come se non bastassero tutte le incertezze sul piano della politica fiscale, giovedì non ha brillato per chiarezza ed autorevolezza nemmeno la Presidente della BCE Christine Lagarde. È stata molto vaga, parlando di “settimane o mesi” per il rialzo dei tassi, dopo il termine degli acquisti di titoli del QE previsto nel terzo trimestre. I mercati hanno reagito a questo messaggio relativamente tollerante nei confronti dei rischi di inflazione, vendendo BTP e Bund con l’euro in picchiata ai minimi da 5 anni. Qualche ora dopo, la solita fonte “anonima” ha rimediato facendo sapere alla Reuters che non è comunque escluso un rialzo dei tassi già a luglio, riportando l’euro appena sopra i minimi.

Non è proprio confortante constatare che stiamo attraversando a fari spenti una notte davvero buia e che il condizionatore spento sarà davvero l’ultimo dei problemi.

(versione ampliata e aggiornata rispetto a un articolo pubblicato su La Veritò)

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