Tutti gli studenti delle scuole superiori lo imparano ancora durante le lezioni di storia: la prima unione europea è stata creata intorno all’acciaio e al carbone, con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), istituita nel 1951 dal trattato di Parigi, ratificato all’epoca dall’Europa dei Sei (Francia, Germania Ovest, Italia e i paesi del Benelux). Tre quarti di secolo dopo, la produzione di carbone è scomparsa in gran parte dal suolo europeo. È ora il turno di quella dell’acciaio?
LO STATO DELL’INDUSTRIA SIDERURGICA NELL’UNIONE EUROPEA
La constatazione è implacabile: dal 2008, la produzione di acciaio nell’Unione europea (UE) è diminuita del 30% fino a raggiungere il suo livello più basso mai registrato, mentre quasi 100.000 posti di lavoro sono scomparsi nell’industria siderurgica, secondo i dati di Worldsteel, l’associazione mondiale dei produttori di acciaio. Alcuni descrivono il settore in uno stato di sopravvivenza, altri, ancora più pessimisti, in agonia o in via di estinzione. “In dieci anni, la produzione di acciaio in Europa è passata dal 7% della produzione mondiale al 4%”, ha ricordato a marzo Stéphane Séjourné, vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario per la prosperità e la strategia industriale.
Le cause di questo crollo sono molteplici. Le sovracapacità cinesi a basso costo stanno inondando il mercato europeo e soffocando le sue acciaierie. Dall’inizio della guerra in Ucraina, i prezzi dell’energia in Europa sono aumentati per queste industrie elettro-intensive, rendendole meno competitive rispetto ai loro concorrenti asiatici, mediorientali o nordafricani. Infine, i mercati si stanno riducendo, con l’aumento del 25% dei dazi doganali per l’acciaio e l’alluminio europei importati negli Stati Uniti, annunciato da Donald Trump il 2 aprile.
Dall’altra parte della Manica, il governo britannico sta cercando di salvare in extremis l’ultimo altoforno del Regno Unito, che rischia di scomparire dopo l’annuncio, all’inizio di aprile, della chiusura della British Steel di Scunthorpe, nel Lincolnshire, da parte del suo proprietario, il gruppo cinese Jingye. […]
LA SITUAZIONE NEL REGNO UNITO
“La situazione britannica dovrebbe metterci in allerta su ciò che potrebbe accadere presto in Europa”, avverte Marcel Genet, fondatore della società di consulenza Laplace Conseil. Questo esperto di siderurgia è categorico: “Certo che negli anni a venire alcuni siti chiuderanno in Europa, è una certezza!” Un discorso che ricorda, in modo più diretto, quello di Alain Le Grix de la Salle, presidente della filiale francese di ArcelorMittal, il primo gruppo siderurgico europeo e il secondo al mondo, che a gennaio aveva dichiarato alla commissione per gli affari economici dell’Assemblea nazionale che “tutti i siti, qualunque essi siano, sono a rischio in Europa”.
COME VANNO THYSSENKRUPP E ARCELORMITTAL
La sola industria siderurgica europea fornisce oltre 300.000 posti di lavoro diretti e quasi 2 milioni di posti di lavoro indiretti. Ma le acciaierie del Vecchio Continente funzionano al 60% delle loro capacità, a causa della mancanza di domanda, in particolare da parte dei loro due principali clienti, l’industria automobilistica e l’edilizia, anch’esse in crisi. In Germania, ThyssenKrupp, l’altro gigante europeo, dovrà tagliare 11.000 posti di lavoro entro il 2030, pari al 40% della sua forza lavoro. In Italia, l’acciaieria di Taranto, passata sotto la tutela dello Stato dal 2024, è quasi in bancarotta.
In Francia, ArcelorMittal, che produce due terzi dell’acciaio francese, ha fermato uno dei due altiforni del suo stabilimento di Fos-sur-Mer (Bouches-du-Rhône) e sta chiudendo gli impianti di trasformazione dell’acciaio a Reims (Marne) e Denain (Nord). […]
Questi industriali stanno pagando anche i loro investimenti insufficienti, con alcune acciaierie vecchie di decenni. “Non abbiamo modernizzato le unità. Di conseguenza, l’Europa non attrae fondi di investimento e ha perso competitività rispetto all’Asia, ma anche rispetto a paesi in via di sviluppo come la Turchia o l’Algeria“, spiega Genet, che teme che, ”nei prossimi anni, i gruppi asiatici proprietari di acciaierie in Europa finiranno per ritirarsi e andarsene”.
LA SOVRACCAPACITÀ DELLA CINA
Tanto più che la situazione non è destinata a migliorare presto. Le sovraccapacità globali dovrebbero infatti continuare ad aumentare nei prossimi anni. Il settore edile cinese, in calo, consuma meno. Il gigante asiatico, che produce più della metà (54%) dell’acciaio mondiale, riversa il suo eccesso nel resto del mondo. Le esportazioni cinesi di acciaio sono già più che raddoppiate dal 2020, raggiungendo 118 milioni di tonnellate nel 2024, pari alla produzione americana. E l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha annunciato, il 1° aprile, che le sovraccapacità globali, ampiamente alimentate dall’Impero di Mezzo, dovrebbero raggiungere “721 milioni di tonnellate, entro il 2027“, contro i 602 milioni di tonnellate stimati nel 2024, ovvero più di cinque volte la produzione di acciaio dell’UE (circa 127 milioni di tonnellate). Pechino spinge per un calo dei prezzi e le misure di salvaguardia introdotte dall’Europa nel 2018 non sono più sufficienti. Tanto più che le barriere commerciali erette negli Stati Uniti rischiano di riorientare l’acciaio cinese verso il mercato europeo.
IL PIANO D’AZIONE EUROPEO
Bruxelles ha presentato il 19 marzo il suo “piano d’azione europeo per l’acciaio e i metalli”. Il dispositivo, che riprende numerose richieste degli industriali, intende prolungare le misure di salvaguardia, aumentare il sostegno al riciclaggio dei rottami e favorire maggiormente l’accesso ai mercati pubblici per l’acciaio locale. Il piano propone inoltre di estendere il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere ad alcuni prodotti finiti in acciaio e non solo alle materie prime. Ma per il momento questo piano è soprattutto ricco di promesse. Sulla questione energetica, ad esempio, si limita a formulare “consigli” ai Paesi membri per ridurre i costi.
“Dobbiamo applicare questo piano a breve termine con forza e senza indugio, e andare ancora oltre preparandoci a lungo termine”, sostiene il deputato europeo francese Christophe Grudler, membro del gruppo Renew Europe. Secondo l’eurodeputato, l’UE deve essere “più aggressiva e non farsi più problemi” di fronte alla concorrenza straniera che aggira le regole”.
L’acciaio è indispensabile per la “sovranità strategica” promossa dall’UE. Senza acciaio, non è possibile alcuna difesa, né automobili o aeronautica, né turbine eoliche o rotaie o costruzioni… Ma la transizione climatica obbliga il settore a decarbonizzarsi entro il 2050. La posta in gioco è enorme: con quasi l’8% delle emissioni mondiali di gas serra, la siderurgia è una delle industrie più inquinanti. Solo in Francia, le acciaierie di ArcelorMittal a Dunkerque (Nord) e a Fos-sur-Mer sono in cima alla classifica dei cinquanta siti con le maggiori emissioni di gas serra, davanti alle raffinerie e ai cementifici, e rappresentano un quarto delle emissioni dell’intero settore manifatturiero nazionale.
Sostituire gli altiforni a carbone o a gas con forni elettrici è un processo lungo e molto costoso. In Europa sono state annunciate cinque unità di produzione di acciaio “verde”, fuso con idrogeno proveniente da energie rinnovabili e rottami riciclati: due in Svezia (Hybrit e H2 GreenSteel), una in Norvegia (Blastr), una in Francia (Gravity, a Fos-sur-Mer) e una in Spagna (Hydnum, in Castiglia). Un primo passo incoraggiante, ma lungi dall’essere sufficiente. “Per decarbonizzare l’intera produzione di acciaio in Europa, dovremmo prima costruire quasi quaranta EPR [reattore europeo pressurizzato] in tutto il continente per fornire l’energia necessaria”, ricorda Marcel Genet.
LA SIDERURGIA SOFFRE PER IL PREZZO DELL’ELETTRICITÀ
Tuttavia, l’idrogeno europeo fatica a emergere a causa della mancanza di mercato, e l’attuale prezzo dell’elettricità, allineato a quello del gas, sta mettendo a dura prova la redditività delle acciaierie.
Alla fine del 2024, ArcelorMittal ha rinviato sine die due progetti di decarbonizzazione dei suoi altiforni di Fos-sur-Mer e Dunkerque, quest’ultimo per un importo di 1,8 miliardi di euro (di cui 850 milioni di euro di aiuti pubblici). «La strategia non cambia, solo la decisione è in stand-by, perché non possiamo decidere oggi di investimenti che si contano in miliardi», ha spiegato Le Grix de la Salle in Les Echos del 9 aprile. I sindacati dei lavoratori di ArcelorMittal vedono invece questo come un segno che il gruppo, con sede in Lussemburgo, sta trascurando sempre più il mercato francese per concentrarsi su paesi più promettenti, come Brasile, India o Stati Uniti.
(Estratto dalla rassegna stampa di eprcomunicazione)