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Pensioni Inps

Cosa succederà alle pensioni. Fatti e analisi

La crisi non aiuta i montanti contributivi, già colpiti dalla precarietà del lavoro e dal declino demo‑economico. L'approfondimento di Mirko Bevilacqua e Sandro Gronchi per LaVoce.info

La pensione contributiva è il prodotto di un coefficiente di trasformazione, crescente con l’età al pensionamento, per il montante contributivo definito come la somma dei contributi versati al lordo degli interessi maturati in ragione del “tasso sostenibile” che, ogni anno, è la crescita media del Pil nominale nel quinquennio precedente. I coefficienti annunciati per il biennio 2021‑2022 proseguono il trend discendente che, per due di essi, è rappresentato nella figura 1. Le riduzioni si attenuano per due ragioni: da un lato, l’intensificazione degli aggiornamenti, cioè la decrescente distanza che separa le tavole di sopravvivenza di riferimento, dall’altro un moderato rallentamento della longevità. Solo temporaneamente, la tendenza potrà essere interrotta dai coefficienti del biennio 2023‑2024 che, in mancanza di auspicabili correttivi, faranno riferimento alla tavola 2020 destinata a registrare gli effetti negativi della pandemia sulla sopravvivenza senile.

Come la discesa di una scala mobile può essere contrastata risalendone i gradini, così quella dei coefficienti potrà esserlo posticipando il pensionamento. Tuttavia, ciò non basterà a preservare le pensioni se i montanti contributivi si ridurranno, come lasciano prevedere la precarietà del lavoro, che riduce il numero e la dimensione dei contributi, e il declino demo‑economico che taglia gli interessi sui medesimi. Quelli del 2021, con valuta 1° gennaio 2022, saranno perfino negativi perché calcolati in ragione della crescita media del Pil nominale nel quinquennio 2016‑2020 che, in base alle previsioni per l’anno in corso, potrà andare da ‑0,1 per cento (Istat) a ‑0,3 per cento (Bankitalia). A impedirne l’addebito, interverrà la “clausola di salvaguardia” (decreto legge 65/2015 convertito in legge 109/2015) che ne prevede il recupero mediante detrazione dai successivi interessi positivi.

L’INDICIZZAZIONE NELLA LOGICA CONTRIBUTIVA

Su questo difficile scenario incombe l’alea che il calcolo dei coefficienti debba essere riconsiderato per una ragione che coinvolge l’indicizzazione delle pensioni. Per spiegarla, occorre cominciare dal “conto personale” che si apre col “deposito” del primo contributo e si estingue al pensionamento, quando il coefficiente dell’età posseduta è chiamato a ripartirne il saldo (montante contributivo) in uguali annualità destinate al pensionato e in altre, più piccole, destinate al coniuge superstite. Dove vanno a finire, tutte quante, nell’attesa d’essere fruite? Il sistema italiano non ha una risposta, mentre quella condivisa dai sistemi contributivi nord‑europei è che il conto personale sopravvive al pensionamento e le annualità vi restano depositate fino al “prelievo”. Allo scopo di garantire sostenibilità ed equità, l’interesse sui conti personali non cambia dopo il pensionamento, cioè anche ai pensionati è riconosciuta la crescita (media quinquennale) del Pil nominale. Poiché ciascuna annualità matura più interessi della precedente, restando sul conto un anno di più, tutto ciò sfocia nella conclusione che la crescita del Pil nominale è proprio la differenza percentuale fra i valori finali (prelevati) dell’una e dell’altra. In altre parole, è il tasso al quale la pensione deve essere indicizzata.

FLESSIBILITÀ ED ERRORI

In verità, il modello contributivo ammette flessibilità interessanti. Sorvolando gli aspetti tecnici, basterà dire che è consentito rinunciare a una quota dell’indicizzazione in cambio di una maggiorazione dei coefficienti che implica annualità superiori. Come se detta quota fosse “anticipata”, o “pre‑pagata”, in tal forma. L’opzione cambia il profilo temporale della pensione, aumentandola nella fase iniziale e riducendola in quella finale. Perciò riflette la convinzione che i bisogni diminuiscono all’avanzare dell’età. L’anticipo dell’1,5 per cento, scelto dal governo Dini nel 1995, ebbe invece lo scopo di aiutare l’approvazione del sistema contributivo esibendone la capacità di generare tassi di sostituzione mediamente simili a quelli offerti dal sistema retributivo.

Paradossalmente, una scelta così importante fu lasciata del tutto in ombra. Senza mai essere menzionato nel testo di legge, l’anticipo comparve solo in calce alla tavola dei coefficienti col nome misterioso di “tasso di sconto”. Venne così lanciato il messaggio che il sistema contributivo si esaurisce nella formula di calcolo della pensione, senza avere una regola d’indicizzazione sua propria. L’errore fu intenzionale. Da un lato, preoccupava che, nella lunga fase transitoria, l’indicizzazione fosse “dicotomica”, cioè che le pensioni contributive fossero indicizzate diversamente da quelle retributive. Dall’altro, non si voleva rischiare il risultato, mal digerito dai sindacati, che il governo Amato aveva ottenuto tre anni prima sganciando le pensioni dai salari e lasciandole indicizzate ai soli prezzi. In realtà, la dicotomia poteva essere evitata alla maniera di altri paesi, cioè estendendo alle pensioni retributive l’indicizzazione propria di quelle contributive. In tempi nei quali la crescita economica era ancora robusta, tale scelta avrebbe potuto facilmente incontrare il gradimento dei sindacati.

A quel salto logico senza uguali non è mai stato posto rimedio. Sia pure in forma mutevole, l’indicizzazione ha sempre fatto riferimento ai prezzi e nel 2022 è atteso il ritorno alla forma “per scaglioni” in vigore all’epoca della riforma Dini. L’indicizzazione al Pil nominale scontata dell’1,5 per cento (compatibile con la modalità di calcolo dei coefficienti) non è mai stata presa in considerazione. A nulla vale che l’indicizzazione ai prezzi sarebbe equivalente nell’ipotesi, smentita dai fatti, che il Pil reale potesse crescere all’1,5 per cento.

CORREZIONE NON FACILE

La correzione dell’errore incontra difficoltà rilevanti. In primo luogo, occorre riconoscere che un paese a bassa crescita, come l’Italia, non può permettersi un anticipo dell’1,5 per cento che espone le pensioni al rischio d’indicizzazioni negative. Lo prova la figura 2 dove, nei 23 anni dal 2000 al 2022, l’indicizzazione al Pil nominale scontata dell’1,5 per cento risulta negativa dodici volte in termini reali e otto in termini nominali. La stessa figura mostra che dal rischio non è esente neppure l’indicizzazione piena. Eppure, per “conquistarla”, occorre pagare il prezzo di un calcolo dei coefficienti più severo che, per il biennio 2021-2022, implica i formidabili abbattimenti rappresentati, nella figura 3, dalla distanza verticale fra la curva nera e quella verde.

Una via d’uscita è la scelta, fatta dalla Norvegia, di limitare l’anticipo allo 0,75 per cento. La curva azzurra in figura 2 mostra che l’opzione norvegese attenua, ma non elimina, il rischio di indicizzazioni nominalmente negativi che, in un paese di “diritti acquisiti” come l’Italia, incontrerebbero difficoltà tanto giuridiche quanto politiche. Perciò la clausola di salvaguardia, nata per evitare la riduzione dei montanti contributivi in formazione, dovrebbe essere adattata per evitare anche la riduzione degli assegni in godimento. All’opzione norvegese guarda la Svezia, preoccupata dalle due indicizzazioni negative già sofferte dalle sue pensioni a causa di un anticipo simile a quello italiano.

La curva azzurra in figura 3 mostra gli abbattimenti dei coefficienti 2020‑2021 implicati dall’anticipo dello 0,75 per cento in luogo dell’attuale 1,5. La curva rossa mostra che la rinuncia alla reversibilità può trasformare tali abbattimenti in variazioni perlopiù positive. Rispettando i diritti acquisiti, la reversibilità potrebbe cedere il passo a un programma fiscalizzato di assistenza al superstite bisognoso. Nel capitolo 7 del “Pensions Outlook 2018” (Are survivor pensions still needed?), l’Oecd sottolinea come la crescente partecipazione femminile al mercato del lavoro faccia venir meno le ragioni di un istituto portatore di iniquità redistributive a scapito dei non coniugati.

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