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Retribuzioni

Perché i sindacati arrancano nel nuovo mondo del lavoro

Estratto del saggio di Daniele Marini, professore di Sociologia dei processi economici all'Università di Padova, contenuto nel volume edito da Franco Angeli "Basta chiacchiere! Un nuovo mondo del lavoro", curato da Walter Passerini realizzato per la collana di Aidp–Hr Innovation

 

Il mondo del lavoro diventa progressivamente un universo di galassie professionali. La diffusione di sempre nuove tecnologie e il dipanarsi della quarta rivoluzione industriale, se sicuramente rendono obsoleti alcuni lavori, nello stesso tempo aprono orizzonti alla nascita di nuovi mestieri, con competenze diverse dalle precedenti. Come in una sorta di “big bang”, stiamo assistendo – quasi giornalmente – a un’espansione dell’universo lavorativo e al sorgere di nuove attività. Le conseguenze di simili fenomeni investono una molteplicità di ambiti e aprono nuove sfi de nella sfera dei diritti e dei doveri, delle imprese e dei lavoratori, delle tutele e della rappresentanza.

Ecco, la rappresentanza. È diventato un mestiere complicato, per tutte le forme organizzate degli interessi, sia chiaro: dalle associazioni imprenditoriali a quelle professionali e istituzionali, per non dire dei partiti. Ma le organizzazioni dei lavoratori, fra tutte, hanno una lunga storia alle spalle e anch’esse conoscono un’impasse. Che deriva da alcuni ordini di motivi.

LE DIFFICOLTÀ DEL SINDACATO NEL NUOVO MONDO DEL LAVORO

Il primo attiene alla crescente apertura dei mercati internazionali e alle nuove divisioni del lavoro su scala globale, oltre alle ripetute riforme delle regole del mercato del lavoro: tutto ciò pone le organizzazioni dei lavoratori costantemente in tensione. Più spesso sulla difensiva. Meno su posizioni progettuali. I problemi di cui il sindacato soffre sono noti da tempo. La componente dei pensionati che supera gli attivi fra gli iscritti, la difficoltà a essere presente nei settori in crescita (imprese del terziario e dei servizi), fra le figure professionali non manuali, soprattutto fra le giovani generazioni e le donne: ovvero nei nuovi ambiti produttivi e nelle nuove forze del lavoro. Come se il sindacato riproducesse continuamente la base di rappresentanza originaria, incapace di parlare un linguaggio in grado di intercettare le nuove dinamiche del lavoro e dei mercati. Per dirla con un libro profetico di Bruno Manghi di quasi 40 anni fa, il sindacato “declina crescendo”.

Ma al tempo, fine anni ’70, il sindacato godeva di un’ampia schiera di iscritti fra gli attivi e di uno status centrale nella vita nazionale. Oggi quel ruolo appare fortemente appannato e il rischio è che si ponga su un piano inclinato dove “declina calando”. Simbolicamente, prima ancora che numericamente. In altri termini, il problema non è solo o tanto di natura organizzativa, quanto di valore. Di capacità delle organizzazioni sindacali di analizzare, interpretare e narrare le (dis)articolazioni dei lavori. In una parola, di rappresentare le diverse culture dei lavori sviluppatesi negli anni dopo il venire meno della “classe operaia”.

LA FINE DELLA “CLASSE OPERAIA”

Il secondo ordine di motivi risiede nella progressiva articolazione dei lavori. Se in precedenza la “classe operaia” della fabbrica costituiva l’elemento identitario (e culturale), il riferimento obbligato sotto il profilo contrattuale, oggi i lavoratori sono “fuori dalla classe”. Gli operai rappresentano una minoranza e, pure al loro interno, sono presenti un mix di figure. Altri mestieri e professioni sono cresciuti. Il lavoro si fa diffuso nei luoghi e nelle forme, con orari asincroni e una crescente difficoltà a distinguere quello manuale da quello intellettuale. Le organizzazioni sindacali faticano a raggiungerli e a rappresentarli. Di qui, la confederalità e il tradizionale solidarismo fra lavoratori diventa più complicato e complesso da gestire, perché gli interessi si moltiplicano. Così prendono vita organizzazioni specifiche che tutelano particolari gruppi di lavoratori, proliferando e diluendo la rappresentanza.

I CAMBIAMENTI NELLA CULTURA DEL LAVORO

C’è poi un terzo elemento da considerare: la rappresentanza si realizza con almeno un interlocutore (imprenditoriale, politico). Ma se anche questi è in una condizione di debolezza, il ruolo di portatore d’interessi entra reciprocamente in difficoltà. Gli esecutivi in passato (Berlusconi prima, Renzi poi) e attuali (in particolare quello guidato da Conte con M5S e Lega) hanno ricercato una disintermediazione nei confronti dei “corpi intermedi”, aggirandoli e inseguendo una relazione diretta con i mondi di riferimento. I risultati di una simile azione, dopo un periodo di contrapposizioni, si sono conclusi con un ritorno sui propri passi. In realtà, più per demerito della politica che per merito delle organizzazioni sindacali, spesso ancorate a posizioni difensive.

Ma all’interno di questi processi un’altra dimensione contribuisce a complicare il mestiere della rappresentanza: i cambiamenti nelle culture del lavoro, di cui abbiamo già in precedenza descritto i lineamenti. Il peso crescente attribuito alla soggettività e alle relazioni sul lavoro, l’identificazione con l’impresa, l’idea di un lavoro inteso come un percorso di crescita professionale, la valorizzazione del merito: sono tutti aspetti divenuti largamente maggioritari negli orientamenti dei lavoratori, ma che le organizzazioni sindacali faticano a comprendere e, soprattutto, a tradurre concretamente nelle tutele, nella contrattazione.

COME I LAVORATORI PERCEPISCONO I SINDACATI

Infine, ma non per importanza, la forza della rappresentanza si nutre della reputazione e della stima che un’organizzazione gode al di fuori della propria platea di riferimento. Nel tempo anche le opinioni della popolazione e dei lavoratori verso le organizzazioni sindacali sono fortemente mutate. Come raccontano diverse ricerche, innanzitutto osserviamo una divergenza fra quanto espresso dalla popolazione in generale, da un lato, e i lavoratori, dall’altro, sul ruolo del sindacato in Italia.

Nell’immaginario collettivo aumenta il peso assegnato al sindacato nella sua funzione di tutela e nel concorrere allo sviluppo del Paese. Tuttavia, l’esito non è analogo se concentriamo l’attenzione sui lavoratori, ovvero la platea di riferimento dei sindacati. Sul finire degli anni ’90 del secolo scorso, la maggioranza fra i dipendenti assegnava un ruolo positivo. Progressivamente però questo parterre si riduce. Per contro, aumentano quanti ritengono che le cose in Italia andrebbero meglio senza i sindacati, ma soprattutto aumenta l’area dell’indifferenza verso queste organizzazioni.

Questi esiti sono il frutto dell’opinione che i sindacati non siano in grado di tutelare gli interessi dei lavoratori. I motivi di quest’incapacità rimangono sostanzialmente identici nel tempo. Da un lato, i sindacati sono percepiti al pari dei partiti, dall’altro non si ritiene siano in grado di comprendere le attuali trasformazioni del mondo del lavoro.

L’IMPORTANZA DELL’INNOVAZIONE

Difficoltà ad analizzare le metamorfosi del mondo del lavoro e delle imprese, e assimilazione ai soggetti politici sono i virus che minano la credibilità del sindacato. Lo rendono insignificante nella percezione della maggioranza della popolazione e avverso a quote importanti fra gli stessi lavoratori. Ma, nella crescente (dis)articolazione del mondo del lavoro, un declino e una marginalità culturale del sindacato gioverebbero allo sviluppo del Paese?

Tutto ciò conferma, una volta di più, la necessità di una rivisitazione soprattutto culturale della rappresentanza del mondo del lavoro. Le esperienze, a ben vedere, non mancano. Il “rinnovamento” contrattuale di Federmeccanica e quello di Cna siglati assieme a Cgil-Cisl-Uil nel novembre 2016 sono la dimostrazione di come sia possibile innovare a partire da nuove (condi)visioni del lavoro. Testimoniano che – seppure con fatica – un sindacato (dei lavoratori, così come degli imprenditori) può re-interpretare il proprio ruolo. Perché nell’epoca delle galassie dei lavori, c’è bisogno di qualcuno in grado di offrire un universo comune.

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