Con il comunicato del cda di Mediobanca di martedì e la stringata replica di “fonti vicine a Mps”, potremmo dire che si è chiuso il primo tempo di una partita che si preannuncia lunghissima e certamente ricca di colpi di scena e capovolgimenti di fronte.
Sono infatti tanti e troppi gli intrecci e i conseguenti possibili sviluppi, per individuare un esito con maggiori probabilità di successo.
Ciò che è invece chiara è la posta in gioco: una fetta consistente del risparmio nazionale, il cui controllo è essenziale per la stabilità finanziaria del nostro Paese e, per questo motivo, vede il governo impegnato sia nelle vesti di regolatore che di azionista di MPS. Ma questo, come vedremo, appare destare scandalo in alcuni ambienti. E ci conforta sapere che questa linea di faglia, che avevamo già individuato nelle prime ore dopo l’annuncio dell’operazione, è anche quella su cui si stanno contrapponendo autorevoli commentatori e su cui la stessa Mediobanca ha in parte attestato la sua difesa.
Non possono e non devono passare inosservate le parole di fuoco dell’ex ministro dell’economia Giovanni Tria al Foglio di ieri. Infatti conferma che al centro della discussione c’è il fatto che tutti i Paesi «giustamente, vogliono un controllo sul risparmio interno». Perché proprio l’Italia dovrebbe non farlo? Chiediamo (retoricamente) a Tria, che centra subito il bersaglio, citando l’esempio del governo tedesco sulla vicenda Unicredit-Commerzbank.
Ma non si ferma qua. Perché, criticando l’accezione bellica del termine «ostile» (quando l’offerta di Mps è semplicemente non concordata) usata da Mediobanca, gli lancia la prima frecciatina. Secondo lui «lo scontro è tra capitalisti con i capitali e capitalisti senza capitale che pretendono di avere il controllo pur non possedendo i capitali» e qui il pensiero va subito al famoso «le azioni si pesano, non si contano» di Enrico Cuccia. “Francesco Gaetano Caltagirone appartiene alla prima categoria: ha i capitali e chiede giustamente di contare e io preferisco quelli come Caltagirone». Un Tria senza peli sulla lingua che torna ancora sul punto decisivo: “se l’operazione andrà in porto è di certo nell’interesse dell’economia italiana. Deciderà il mercato. L’importante è che il gioco venga condotto perbene». Ma è alla fine che emerge quanto egli possa aver detestato l’arrocco di Mediobanca in risposta alla mossa di MPS. Al racconto da bar dello sport di Roma contro Milano, Tria contrappone la sua lettura: “non cadrà nulla. Si scardineranno solamente quei luoghi dove in una stanza si decideva se dovesse o meno fallire Gardini. Questo racconto di Roma cattiva, Milano buona è falso». Un modo di descrivere Mediobanca che è un attacco frontale agli uomini di Piazzetta Cuccia. La lettura di Tria ci convince molto perché ritiene che MPS sia una banca che «domani potrebbero averla gli italiani e potrebbe far bene all’Italia».
Di tutt’altro tenore e molto meno convincenti, le tesi esposte dall’economista Pietro Reichlin su La Stampa, che ha timori e dubbi di vario genere su un’operazione che «molti definiscono azzardata», compreso lui. Secondo lui il problema sarebbe la differenza di dimensioni tra preda (Mediobanca) e predatrice (Mps) come se tale criterio fosse discriminante in un’acquisizione. Invece la domanda da farsi è: gli azionisti della predatrice sono sufficientemente forti? E, guardando alla solidità delle spalle di Caltagirone e della famiglia Del Vecchio, la risposta pare proprio affermativa.
La contestazione più inconsistente pare essere quella relativa al ruolo del governo che «sta impegnando risorse pubbliche in un’operazione a rischio elevato» con possibili «danni ai contribuenti» e si troverebbe pure in «conflitto di interessi». Questo solo perché all’indomani dell’annuncio MPS ha perso in Borsa qualche punto percentuale. Un’inezia rispetto al raddoppio (dico raddoppio) del valore rispetto a soli 12 mesi fa. Sta parlando del nulla.
E se all’esito dell’Ops il governo si ritrovasse socio importante, ancorché ovviamente diluito rispetto all’attuale posizione di primo azionista di Mps, di un gruppo che controlla Mediobanca e che esercita un’influenza dominante in Generali, quale sarebbe, di grazia, il danno per il contribuente?
Reichlin mette in dubbio «l’utilità del consolidamento», ma utilità per chi? Gli unici a valutarla saranno gli azionisti di Mediobanca, chiamati a cedere 10 azioni per riceverne 23 di Mps. Ma tra quegli azionisti ci sono anche Del Vecchio e Caltagirone, azionisti di peso anche in Mps, che non possono aver concordato e avallato la formulazione dell’offerta a cura dell’amministratore delegato, Luigi Lovaglio. Quindi hanno già valutato l’utilità del consolidamento, checché ne pensi Reichlin.
Ma a Reichlin non sta affatto bene che lo Stato faccia l’azionista di una banca e veda con favore che altri azionisti privati consolidino il controllo o l’influenza su una parte consistente del risparmio nazionale. Preferisce forse azionisti col passaporto estero? Rifiuta proprio il «ruolo attivo» dello Stato che «farebbe male a considerare strategica la gestione del risparmio nazionale». Esattamente il contrario di quanto sostiene, in modo convincente, Tria. Reichlin preferisce «l’integrazione continentale» che ci proteggerebbe dalle crisi, come purtroppo non accadde nel 2010-2011. Invece è proprio il contrario, sono proprio gli investitori esteri (i portafogli diversificati, come dice lui) a scappare in caso di turbolenze sui mercati, nella spirale tipica di una profezia autoavverante. Ecco perché il risparmio nazionale è preferibile che sia nelle mani di azionisti nazionali, meno inclini ad abboccare alle bufale sul “Paese sull’orlo del baratro” che ogni tanto circolano (oggi un po’ meno) sui media internazionali.
Significative e in linea con quelle di Tria anche le parole del segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni: «Questa è una operazione che riguarda i risparmi degli italiani, 800 miliardi di euro in tutto, che corrispondono a circa un quarto del debito pubblico del Paese, che verrebbero messi in sicurezza, nell’interesse di tutti. Ovviamente il management di Mediobanca cercherà di impedire il successo dell’ops lanciata da Mps, ma sarà il mercato a determinare l’esito finale».
Invece destano perplessità le parole del comunicato di Mediobanca, intrise di disprezzo e senso di superiorità verso chi sta cercando, capitali alla mano, di contare qualcosa in quell’inaccessibile salotto.
Una sequenza di affermazioni apodittiche (mancano solo sette piaghe d’Egitto e l’apocalisse tra le conseguenze dell’operazione, paventate dal cda di Mediobanca). Perdita di clienti e di ricavi, pregiudizio per l’identità della banca, descrizione di Mps come una banca piena di problemi, fuga delle migliori risorse umane, assenza di sinergie di costo, peggioramento dei multipli valutativi, offerta a sconto rispetto alle quotazioni di MPS, dubbi sugli intrecci azionari di Delfin e Caltagirone. È difficile comprendere come sia stato possibile per i tecnici di Mediobanca avere la granitica certezza di queste conseguenze, senza nemmeno avere idea del piano industriale che Lovaglio e i suoi soci forti potrebbero avere per la nuova entità combinata. Ma tant’è. Il passaggio a nostro avviso, più sprezzante è quello in cui si prevede che sotto il controllo di MPS, le attività di wealth management «che presuppongono l’indipendenza, la reputazione e la professionalità dei professionisti», potrebbero subire «una copiosa perdite di clienti». Come se da Siena e Roma fosse in partenza verso Piazzetta Cuccia una masnada di bifolchi ignoranti abituati a servire padrone, usi a frequentare le peggiori taverne e con il diploma preso alla Scuola Radio Elettra di antica memoria. La difesa di Mediobanca prova troppo, direbbe un avvocato.
Una reazione sopra le righe che denota un evidente nervosismo verso una mossa che, almeno a stare a un profetico (ma certe cose non si scrivono mai per caso…) articolo apparso su Bloomberg il 17 gennaio, a bocce ancora ferme, non era proprio inattesa.
Il fatto che Delfin e Caltagirone prima o poi si sarebbero mossi da protagoniste nel riassetto del settore bancario in corso era prevedibile. Dopo aver detto del fallito tentativo di tre anni fa da parte di Caltagirone di rimuovere il ceo di Generali Philippe Donnet e quello di Mediobanca Alberto Nagel, il costruttore romano aveva promesso che non sarebbe finita così. E l’annuncio dell’operazione Generali-Natixis e il prossimo rinnovo del cda del leone di Trieste, era l’occasione per tornare alla carica. «I tycoon potrebbero avere ancora altro da dire», concludeva profeticamente l’articolo. Profezia o imbeccata? Non lo sapremo mai.
Dopo pochi giorni i tycoon hanno parlato, chiaro e forte. Ora la parola agli azionisti di Mediobanca e allo Stato che può e deve recitare un ruolo, nell’ambito del legittimo e del consentito, per la difesa del risparmio e dell’equilibrio finanziario del Paese.