Sono passati poco più di 31 anni da quel 23 luglio 1993, quando Raul Gardini mise fine alla propria vita con un colpo di pistola. Ma le parole per descrivere la sua eccezionale parabola da imprenditore e manager in uno dei periodi più esaltanti e, al contempo difficili, della storia repubblicana, non saranno mai sufficienti.
Questa volta ci ha provato il cognato Carlo Sama con un libro uscito qualche settimana fa dal titolo inequivocabile: «La caduta di un impero».
È una lettura da fare tutta di un fiato. Avvincente soprattutto perché la voce narrante è quella di uno dei protagonisti di quegli eccezionali anni. La descrizione che ne offre Sama è di parte, ovviamente priva di contraddittorio, ma non sfocia mai in una smaccata partigianeria. Ogni episodio ha la sua data, con l’elenco delle persone presenti, degli atti a cui fare riferimento. D’altronde non avrebbe potuto essere diversamente, perché l’intero libro è un enorme guanto di sfida lanciato al sistema di potere dell’epoca – Politica, magistratura e Mediobanca – e certe accuse devono essere accuratamente circostanziate. Proprio l’istituto di Piazzetta Cuccia è destinatario di precise e durissime accuse che coinvolgono i suoi vertici dell’epoca (Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi). Questi ultimi, assieme a Luigi Fausti (capo all’epoca della Banca Commerciale) e altre banche vicine a Mediobanca, furono decisivi per compiere «l’esproprio» ai danni della famiglia Ferruzzi proprio nelle settimane a cavallo della tragica scomparsa di Raul Gardini, marito di Idina, una delle figlie del mitico Serafino Ferruzzi, assieme a Alessandra (moglie di Sama), Franca e Arturo (scomparso recentemente).
Una storia che forse potrà dire poco, ma insegnare molto a chi all’epoca era ancora troppo giovane. Il ricordo è invece indelebile nella memoria di tante persone – come chi scrive, che l’ha vissuta da studente di economia a Milano che ogni giorno leggeva avidamente le cronache finanziarie della scalata alla Montedison in quella città che viveva le ultime emozioni della “Milano da bere” mentre all’orizzonte c’erano già le nubi di “Mani Pulite”.
«Esproprio» è esattamente il titolo di uno dei capitoli più interessanti del libro, in cui c’è la cronistoria quasi quotidiana di come le azioni delle Ferruzzi Finanziaria furono sottratte alla disponibilità della famiglia Ferruzzi da Mediobanca e dalle banche creditrici. Lasciano poco spazio alla fantasia anche i due capitoli precedenti, «Le mosse di Magnani: come regalare a Mediobanca la Ferruzzi su un piatto d’argento» e «soli contro tutti: la nostra lunga agonia».
Ma se questo è il fulcro del libro e il tema che potrebbe far divampare lo scontro tra chi ancora può parlare di quei fatti, il libro è un racconto dettagliato e molto interessante degli anni che precedettero quelle drammatiche settimane.
I sette anni successivi alla tragica scomparsa in un incidente aereo del fondatore Serafino Ferruzzi nel 1979, furono anche quelli in cui si costruì e consolidò il sodalizio tra Gardini e Sama e durante i quali il gruppo di Ravenna diventò definitivamente un gigante mondiale dell’agroalimentare, soprattutto nel settore saccarifero. Un «Impero», appunto. Ma da quel momento cominciò la «campagna di Russia e la Waterloo di Raul».
Il «punto di svolta» (testuale) è quello della scalata, avvenuta nel 1987, del gruppo Ferruzzi alla Montedison – un conglomerato in cui c’era la chimica e molte altre cose – guidata da Mario Schimberni che, prima di allora, faceva e disfaceva a proprio piacimento, non avendo un azionista di riferimento forte. Montedison era una cosiddetta public company. Quella scalata, avvenuta rastrellando e strapagando le azioni sul mercato, indebitò pesantemente la Ferruzzi. Ma, quel che è peggio, è che Schimberni che «fu lasciato operare indisturbato per un lungo periodo… per un bel po’ non gli fece letteralmente toccare palla». A Gardini, dopo il primo giro negli uffici di corso Bonaparte, «il sorriso gli si spense sul volto, nella consapevolezza di essersi inoltrato in acque profonde e sconosciute… era come se, oltrepassando il portone della Montedison, fosse entrato in una fitta giungla e avesse perso l’orientamento».
Passavano i mesi e Schimberni continuava a indebitare la Montedison «e noi non potevamo nemmeno comandarla», è il commento di Sama. Fu solo con un grande sforzo che Gardini riuscì a «privare Schimberni del suo giocattolo» e, con la fusione di Ferruzzi con Iniziativa Meta e a un vantaggioso concambio per gli azionisti di Ferruzzi a scapito di quelli di Montedison, a rimettere il gruppo in relativo equilibrio.
«Purtroppo, però, invece di imboccare alla massima velocità le autostrade spianate davanti a noi, alimentazione ed energia… ci siamo impantanati nella chimica più banale […] ma Raul era un pokerista all’ultimo stadio: un pokerista dostoevskiano, uno di quei giocatori che invece di alzarsi dal tavolo di gioco dopo aver vinto, rilanciano sempre, come in una ossessione, fino a perdere tutto. Così si smarrì di nuovo dentro i corridoi di Foro Buonaparte». È il passaggio del libro in cui Sama rimprovera a Gardini la lunga sequenza di errori strategici riguardo le direttrici di sviluppo del gruppo.
Fino ad arrivare «all’ossessione finale». Enimont. Sama la descrive come un “lungo calvario per tutti noi» e la “più grande sconfitta per Raul”, col tentativo di scalata alla joint venture paritetica con Eni – con il connesso bagno di sangue finanziario della famosa “speculazione della soia” – che «fece infuriare, compattandola, tutta la politica italiana». In mezzo a tutto ciò partì l’avventura velistica del Moro di Venezia, un vero e proprio trionfo mediatico con milioni di persone incollate alla televisione durante la notte per seguire le regate in corso a San Diego e il trionfo nella Louis Vuitton Cup con la sconfitta nella finale di Coppa America, tanto da far concludere a Sama che «se invece di infilarsi nel tunnel senza sbocco di Enimont e di voler fare il chimico a tutti i costi, si fosse concentrato sulla vecchia Ferruzzi e su ciò che sapeva più fare, cioè l’armatore e il velista, forse il suo e i nostri destini sarebbero stati diversi […] invece Enimont lo distrusse fisicamente e psicologicamente». «Enimont fu la nostra Waterloo» è l’amara conclusione di quel capitolo.
Da lì cominciò la separazione delle strade tra le famiglie Gardini e Ferruzzi, «la degenerazione di Gardini», descritto da Sama come «un bambino viziato». Con il passare del tempo Gardini vedeva nemici e traditori ovunque («era ossessionato dai complotti») e cominciò a dubitare proprio di Sama, che arrivò perfino ad aggredire fisicamente. La rottura maturò con la proposta da parte di Gardini alla famiglia Ferruzzi di «un folle progetto di passaggio generazionale». Il progetto fu respinto e Gardini e Idina Ferruzzi furono «lautamente liquidati» da Alessandra (nel frattempo aveva cominciato una relazione con Sama, sposato in seguito), Franca e Arturo.
Da quei mesi del 1992 cominciò il «tango con Cuccia e Maranghi», in cui Sama era il rappresentante della famiglia Ferruzzi nei confronti di Mediobanca. Crocevia obbligato per rimettere ordine in un gruppo appesantito da un eccessivo indebitamento ma con una base industriale solida e profittevole. Si trattava di vendere partecipazioni non strategiche, accorciare la catena di controllo e concentrarsi su agroindustria ed energia.
Dal febbraio 1992 al giugno 1993, ci furono 25 lunghi incontri in cui Cuccia e Maranghi mostrarono il loro consenso verso le proposte di Sama e lo incoraggiavano. Ma, quando Sama, chiedeva di passare dalle parole ai fatti, da Milano «si dichiaravano non ancora pronti a causa degli impegni di consulenza al governo», rinviando sempre tutto di mese in mese. Fino all’improvviso voltafaccia di Maranghi dell’aprile 1993. Dopo mesi spesi a tergiversare, all’improvviso «non c’era più un minuto da perdere ed era necessario subito coinvolgere la Banca d’Italia […] mi fu anche detto sommariamente che i Ferruzzi avevano perso tutto il loro patrimonio […] all’improvviso mi si diceva che per noi era la fine». Il soggetto che avrebbe dovuto essere solo un advisor, in condizione di dubbia terzietà, perché già azionista dei Ferruzzi si sta preparando a diventarne azionista di riferimento. Un’anomalia di enormi proporzioni.
Nel frattempo ci era stato un riavvicinamento con Gardini che aveva portato a dare mandato a Goldman Sachs per un piano alternativo, che prevedeva anche il ricompattamento delle attività di Gardini nel gruppo Ferruzzi, con il coinvolgimento di Sergio Cragnotti. Un piano di cui Mediobanca veniva tenuto costantemente aggiornata, in qualità di capofila dei creditori e di advisor. Ma ormai Mediobanca aveva svelato il suo piano: «non solo gestire il Gruppo, ma prenderne il controllo».
Il resto avvenne nel giro di poche settimane. Congelamento dei conti del gruppo, bloccandone la capacità operativa. Presentazione del piano di ristrutturazione, con la garanzia di lasciare alla famiglia Ferruzzi una quota del 15-20%, previa sottoscrizione di un mandato irrevocabile con il quale le azioni venivano lasciate in pegno a Mediobanca e al pool di banche creditrici, al fine di eseguire la ristrutturazione. Il 4 giugno 1993 i Ferruzzi cedettero a Mediobanca e firmarono impegni che poi furono clamorosamente disattesi da Maranghi che chiese «di punto in bianco» alla famiglia Ferruzzi un aumento di capitale di 260 miliardi, al di fuori della loro portata.
«Tutto ciò che era accaduto dopo il 4 giugno confermava in modo clamoroso quale era stato il disegno di Mediobanca fin dall’origine: ottenere prima con il blocco dei conti, il mandato dei Ferruzzi; e poi disattendendo sistematicamente tutte le promesse fatte, completare l’opera di controllo nei confronti del secondo gruppo industriale italiano». È l’amara conclusione di Sama.
Ma ormai l’esproprio era avvenuto, e Guido Rossi e Enrico Bondi insediati ai vertici del gruppo, fecero deliberare «la più grande svalutazione patrimoniale di una società quotata mai attuata in Italia: il valore delle azioni si ridusse di 200 volte». Il piano di Mediobanca «cinico e opportunistico» era andato in porto.
Ma il j’accuse di Sama non si ferma qua. Infatti fa rilevare che la situazione finanziaria del gruppo in quei mesi del 1993 era difficile, ma certamente non peggiore di quella di altri grandi gruppi industriali italiani (Fiat in primis). E Ferruzzi aveva un solido e profittevole motore industriale. Ma solo Ferruzzi «veniva messa alle strette con inusitata violenza […] sarebbe bastato anche un po’ dell’impegno profuso per Fiat per mettere in sicurezza il Gruppo Ferruzzi. Ma realtà è che Mediobanca non intendeva salvare il Gruppo Ferruzzi bensì sfilarlo ai suoi legittimi proprietari».
La spiegazione di Sama è che gli altri gruppi, tutti agonizzanti, «appartenevano alla loro intoccabile cerchia storica di amici e amici degli amici».
Contemporaneamente era partito anche il versante dell’azione penale condotta Milano da Antonio Di Pietro e a Ravenna Francesco Iacoviello. Un calvario durato otto anni e conclusosi il 26 luglio 2001 con l’assoluzione di tutti i membri della famiglia. «Nel frattempo, il più importante e ricco gruppo industriale italiano, la Ferruzzi, era passato di mano senza pagamento di alcun corrispettivo», è l’ennesima amara conclusione di Sama che termina il suo libro ricordando il suo sogno, non irrealizzabile ma rimasto nel cassetto, di ristrutturare il gruppo secondo il piano di Goldman Sachs, ricevendo la fiducia delle banche e riuscendo quindi a far ripartire una Ferruzzi agile e scattante concentrata su agroindustria ed energia.
Chiude il libro una toccante lettera scritta da Alessandra Ferruzzi in occasione del trentesimo anniversario della morte di Raul Gardini, che termina scrivendo: «Scusa Papà, scusami tanto».