Raccontano che nell’Oceano tempestoso delle relazioni industriali circolino flottiglie di “contratti pirata” che hanno l’obiettivo di depredare i lavoratori concordando con datori di lavoro disonesti condizioni di dumping salariale e normativo. A conferma di questa “pestilenza” viene citata l’abnorme crescita del numero dei contratti depositati nell’Archivio del CNEL: bel 1037 secondo l’ultima rilevazione di luglio, di cui 976 nei settori privati.
Il fatto è che in questo caso la legge dei numeri non funziona se riferita ai contratti. Infatti: dai dati CNEL e INPS relativi a 434 CCNL e a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) emerge come 162 (37,3%) firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali coprano 12.517.049 lavoratori (97%) e 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali coprano 387.066 lavoratori (3%). Questi contratti che non vanno meccanicamente annoverati come “pirata”. Secondo stime attendibili, questi ultimi riguardano lo 0,3% del complesso dei lavoratori (44mila).
L’ARREMBAGGIO DEI CONTRATTI PIRATA ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Come funziona l’arrembaggio dei pirati alla contrattazione corretta? Solitamente un’organizzazione sindacale spuria (si ricordi che l’articolo 17 dello Statuto dei lavoratori sanzionerebbe i c.d. sindacati di comodo) convince un gruppo di imprese in un determinato territorio a stipulare un contratto nazionale in dumping. Questo sotterfugio si avvale dell’articolo 19 dello Statuto come mutilato da un referendum cretino (un colossale autogol della sinistra sindacale). il quale riconosce il diritto di formare RSU alle organizzazioni firmatarie del contratto applicato in azienda. Questo handicap viene di solito sottovalutato anche se è una spina nel fianco della contrattazione collettiva. Poi succede a questi contratti di essere contati più volte come gli aerei di Mussolini e le vacche di Fanfani.
È prassi consolidata che i medesimi testi dei rinnovi contrattuali stipulati dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil con le rispettive controparti siano sottoscritti, separatamente, da una pletora di altre organizzazioni sindacali minori, autonome o dall’UGL, non accettate al tavolo del negoziato insieme ai confederali storici. Va da sé che analoghe procedure si svolgano per tutti i contratti nazionali riconducibili ad un settore. I contratti sono sempre gli stessi, cambiano solo le rappresentanze firmatarie. Per questi motivi si spiega che il numero dei contratti “figli di un dio minore” sia maggiore di quelli di alto lignaggio.
COSA HA FATTO IL CNEL
Il CNEL, da tempo, ha avviato una procedura che dovrebbe consentire, se implementata, di tracciare una linea di demarcazione fra pluralismo contrattuale e pratica sleale. Tale procedura prevede che ad ogni contratto collettivo nazionale, obbligatoriamente depositato presso l’Archivio del CNEL, venga attribuito, per legge, un codice alfanumerico che deve essere riportato sui documenti che i datori sono obbligati ad inserire nelle comunicazioni mensili (al Ministero e all’Inps, per esempio) riguardanti i propri dipendenti. In questo modo si potrà completare l’Archivio della Contrattazione presso il CNEL con una mappatura puntuale dei contratti applicati.
Non si tratta di un mero esercizio di classificazione perché la legge – a fini previdenziali – prevede che in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative della categoria. In questo modo diventa possibile demolire in via amministrativa il vantaggio derivante dal dumping retributivo.
LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA È AL 98-99 PER CENTO IN ITALIA
È poi appena il caso di ricordare l’alto livello di copertura della contrattazione collettiva in Italia. I dati ILOSTAT la calcolano al 99%. L’indagine della Fondazione di Dublino European Company Survey 2019 la stima al 98%. Il database OCSE/AIAS ICTWSS considera la copertura del 100%, poiché in Italia i minimi tabellari fissati nei contratti collettivi sono utilizzati dai giudici del lavoro come riferimento per determinare il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione relativo alla retribuzione proporzionata e sufficiente.
Non è, quindi, infondata la preoccupazione che l’introduzione di un salario minimo legale determini, nella materia, un diverso orientamento della giurisprudenza. Dove sta il problema? Il 17° Report CNEL di luglio certifica che dei 976 CCNL relativi al settore privato, 553 risultano scaduti (57%). I lavoratori privati con un contratto scaduto al 30 giugno 2023 sono 7.732.902, il 56% del totale.
Tra i settori contrattuali privati caratterizzati dal maggior numero di dipendenti con contratto scaduto domina la classifica quello del “Terziario e Servizi”, con il 96%, seguito dal settore “Credito e Assicurazioni” con l’85%. Ben diversa la situazione relativa al settore dei “Trasporti” con solo il 6% di dipendenti con contratto scaduto, seguito da “Edilizia, legno e arredamento” e “Aziende di servizi”, con una percentuale pari al 15%.
È grave che un settore in espansione, anche sul piano occupazionale come il “terziario e servizi” versi in questa condizione di debolezza sindacale. Ci sono in questa situazione delle responsabilità dei sindacati confederali che, per esempio, hanno consentito al sindacalismo di base di prevalere nella logistica.