Molta rilevanza ha avuto la recente legge sul Mercato del Lavoro approvata dalle Cortes spagnole, che per quanto interessa a chi da noi si occupa della questione, riguarda soprattutto una normativa nuova sul Contratto a Termine. Rilevanza dovuta essenzialmente al fatto che sulla base di una lettura errata e strumentale dei dati sull’occupazione il Sindacato ha individuato un argomento che ben si presta ad una battaglia nella quale sia facile arruolare l’opinione pubblica senza dover poi rendere conto in modo concreto e misurabile degli esiti. Un usato garantito, che come funzionò per i 5 Stelle ai tempi del Decreto Dignità (oggi sparito dai radar del mercato del lavoro e pudicamente taciuto anche dai suoi autori) oggi potrebbe funzionare per una mobilitazione sindacale, soprattutto se obiettivo della mobilitazione è la mobilitazione stessa. Ma su questi aspetti “politici” delle scelte che il sindacato sta compiendo torneremo in modo più appropriato.
Ora vorremmo cercare di riportare l’argomento “contratto a tempo determinato” ad una dimensione più concreta e meno sensazionalistica. Cominciando a sottolineare una differenza tra Spagna e Italia che può motivare perché ciò che va bene in un paese può non essere adatto all’altro. In Spagna il tasso di lavoratori a termine sul totale della popolazione in età da lavoro è superiore al 20% (dati 2020) e soprattutto prima della crisi Covid si aggirava sul 23%, mentre il Italia è inferiore al 12% e comunque non ha mai superato il 13%, esattamente nella media europea. La Spagna ha una quantità di lavoro a termine abnorme, superiore di gran lunga a quello di qualunque economia europea: che loro abbiano l’esigenza di intervenire è comprensibile; che la stessa esigenza l’abbia l’Italia non è così evidente, come non è evidente per la Francia, la Germania, l’Olanda, la Svezia, ecc. che infatti non intervengono. Ma soprattutto val la pena di esaminare con serietà in cosa consiste il fenomeno, al di là dell’iconografia diabolica con cui è normalmente rappresentato. Innanzitutto il fatto che rappresenterebbe ormai il grosso dell’occupazione, o che sia avviato a diventarlo.
Vediamo ora, per quanto riguarda l’Italia la percentuale dei contratti a termine non più sul totale della popolazione , come per il valore riportato sulla Spagna, ma rispetto al totale dei lavoratori dipendenti. A Novembre 2021 i tempi determinati erano il 17,1% di tutti i lavoratori dipendenti; a Novembre 2019 (prima della crisi sanitaria) erano il 16,6%, e 12 mesi prima, nel 2018, il 17%. Per fare numeri crudi, ora i tempi determinati sono 3.086.000 e i tempi indeterminati 14.945.000. Nessuna evidenza che questo rapporto numerico tenda a cambiare: probabilmente, come Europa insegna, è strutturale rispetto alle economie manifatturiere evolute e nel sistema di servizi connessi.
Come mai allora gli avviamenti al lavoro sono in così gran maggioranza con contratti a termine? Innanzitutto non è una novità appena scoperta da sindacati e osservatori sbalorditi: basta leggersi (fatica che mal si concilia con l’inconfutabile immediatezza degli slogan) i Rapporti Annuali sulle Comunicazioni Obbligatorie pubblicati dal Governo per vedere subito come si sia di fronte ad un fenomeno consolidato da tempo: nel 2018 le assunzioni con contratto a termine sono state poco meno di 8 milioni, nel 2019 poco di più, nel 2020 quasi 6 milioni e mezzo (ma era anno di crisi); circa 5 volte gli avviamenti con contratti a tempo indeterminato. Come mai? Per un insieme di ragioni: primo, soprattutto nei periodi di incertezza, le imprese scelgono di prendere la mano d’opera compatibile col lavoro prevedibile a breve termine, per non essere costrette poi a procedure di licenziamento complesse e comunque costose. Secondo, perché proprio sono a tempo limitato, i contratti a termine possono anche accumularsi su una stessa persona nel corso di un anno. Terzo, perché abbastanza spesso il contratto a termine precede l’assunzione a tempo indeterminato, un po’ come un periodo di prova.
Vediamo qualche dato significativo. Il 67% dei lavoratori assunti nel 2020 hanno avuto in quell’anno più di un rapporto di lavoro; nel 2018 e 2019 mediamente ogni lavoratore assunto ha avuto rispettivamente 1,68 e 1,79 rapporti di lavoro. Un conto è il numero delle persone interessate da contratti a termine, un altro quello dei contratti stipulati che sono anche spesso ripetuti con le stesse persone. Importante il dato dei contratti a termine che vengono trasformati in assunzioni a tempo indeterminato: negli anni tra il 2018 e il 2020 sono stati tra i 500 e i 600 mila per anno, di cui la maggioranza ha ottenuto la trasformazione tra i 90 e i 360 giorni di lavoro. E’ appunto il caso, di cui parlavamo sopra, di contratti a termine utilizzati come periodo di prova: tra il 7 e l’8% del totale. (N.B. questa percentuale aumenta di molto nel caso di lavoratori a termine somministrati). Contrariamente a quanto comunemente si pensi, le assunzioni a termine non riguardano in modo particolare i giovani: sono spalmate in modo abbastanza equanime su tutte le fasce d’età, e anzi una lieve prevalenza c’è per la fascia tra i 35 e 54 anni.
Sono invece molto significativi i dati relativi alle assunzioni a termine per comparto e professionalità: in testa di gran lunga il settore agricolo, dove le assunzioni a termine rappresentano il 99% del totale (complici anche le normative sulla disoccupazione agricola e i minimi contributivi). Poi i manovali dell’edilizia (anche in questo caso si tratta di contratti a termine “per definizione”, perché l’organico viene composto e sciolto ad ogni inizio e fine di cantiere); poi facchini, autisti e in generale addetti alla logistica, il comparto dove si registrano le maggiori criticità. Altissimo, ma per ragioni note, il numero di assunzioni a termine nella scuola. Alla fine nel 2020, su 6.500.000 assunzioni a termine, 2 milioni erano “fuori graduatoria”, legati cioè a dinamiche differenti dalla normale domanda delle imprese. In sostanza i numeri più alti di assunzioni a termine riguardano contesti particolari per i quali il lavoro a termine è connaturato alle modalità caratteristiche dell’attività.
E per tutta una serie di situazioni questo tipo di lavoro a termine è integrato con sussidi pubblici per i periodi di non-lavoro: è il caso della “disoccupazione agricola” (5-600.000 beneficiari all’anno) e delle indennità di disoccupazione per i lavoratori stagionali del comparto turistico.
In secondo luogo si vede molto chiaramente che la stragrande maggioranza delle assunzioni a termine vendono effettuate per professionalità basse e molto basse, e in settori utilizzatori di mano d’opera poco o niente qualificata, sostituibile facilmente come nella produzione tayloristica.
E questo è realmente la questione: la domanda e l’offerta di forza lavoro di basso profilo che sopravvive alla periferia di Industry 4.0 e del suo indotto. Difficile però immaginare che una legge possa effettivamente obbligare una pizzeria di una località balneare ad assumere in pianta stabile il proprio personale, o un’impresa edile a stabilizzare i manovali a prescindere se abbia o meno cantieri aperti. Il che, peraltro, è facile prevedere che non accadrà neppure nella miracolosa Spagna…
Il miraggio spagnolo, del resto, ha una tradizione in Italia: “Francia o Spagna purché se magna” si diceva un po’ di secoli fa nel Belpaese, esprimendo così la scelta dell’alternativa facilona al fare, al prendersi responsabilità, al risolvere i problemi impegnandosi e dandosi da fare.
E’ giusto porsi il problema di garantire maggior continuità nei rapporti di lavoro ma è assai difficile ottenerlo con sole misure legislative. Né si può pensare, per paradosso, di ottenere risultati stabilendo di fatto l’esistenza di un unico contratto di lavoro, quello a tempo indeterminato perché questo richiamerebbe procedure molto più semplificate di risoluzione del rapporto di lavoro. Si finirebbe dalla padella nella brace. Dobbiamo però chiederci in quale direzione vogliamo andare: verso le realtà economicamente e socialmente più avanzate, come la Germania, la Francia e paesi scandinavi o verso quelle più fragili, seppur in crescita, come la Spagna? In ogni caso tutto dipenderà dalla nostra capacità di trasformare le enormi risorse del progetto UE Next Generation, altrimenti noto come PNRR, in un veicolo di crescita dell’economia e della società.