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Traffico Rifiuti

Quando è lecito il commercio dei rifiuti?

Perché perda la natura di rifiuto, l’oggetto in questione dovrà essere sottoposto agli appositi trattamenti previsti dalla legge; tra i quali non rientrano le mere pratiche commerciali. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione in una recente sentenza su una vicenda relativa a un traffico di rifiuti con il Senegal. L'approfondimento dell'avvocato Stefano Palmisano

 

La vicenda: spedizione di motori usati e frigoriferi in Senegal

N.M. viene condannata dalla Corte di appello di Genova – che conferma la sentenza di condanna a sette mesi di reclusione emessa dal Tribunale – per alcuni reati, tra cui quello di traffico illecito di rifiuti, per aver effettuato una spedizione illecita di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi (un motociclo già avviato alla demolizione/rottamazione, tre motosi usati non bonificati, dieci frigoriferi usati).

Propone, quindi, ricorso per Cassazione.

Il ricorso per Cassazione: i beni destinati alla rivendita non sono rifiuti

Il principale motivo addotto dall’imputata è il seguente: il Tribunale avrebbe sbagliato a qualificare come rifiuti i beni oggetto di spedizione, perché non potrebbero essere considerati rifiuti beni destinati alla rivendita, che cioè hanno un loro mercato.

Commercio di rifiuti: per la Cassazione, la normativa afferma principi molto diversi

La Suprema Corte rigetta radicalmente l’argomentazione difensiva.

Secondo i Giudici del “Palazzaccio”, infatti, la condotta del “disfarsi” che, ai sensi della relativa normativa qualifica l’oggetto come rifiuto, è propria di chi “cede” il bene, non di chi l’acquista (per poi rivenderlo).

In sostanza, spiega la Corte, la qualifica della cosa come rifiuto preesiste, sia per le sue caratteristiche oggettive che per le espresse classificazioni – catalogazioni operate dal legislatore nazionale ed unionale, alle sue possibili vicende negoziali vietandone o condizionandone il commercio.

A ragionare in modo diverso (e seguendo la tesi difensiva), chiariscono i Supremi Giudici, il commercio di rifiuti escluderebbe in radice la natura di “rifiuto” dei beni oggetto di traffico sol perché l’acquirente vi trovi una qualche utilità, a prescindere dalla necessità delle operazioni di recupero necessarie alla cessazione della qualità di rifiuto stesso.

Commercio di rifiuti: il caso dei pezzi di autoveicoli…

Applicando questi principi generali al caso di specie, afferma la Cassazione, la natura di rifiuto dei beni oggetto di illecita esportazione è chiaramente dimostrata: a) dalla destinazione alla rottamazione/ demolizione del motociclo tolto dalla circolazione dall’ACI di (OMISSIS); b) dal fatto che i motori usati (e non bonificati), in quanto parti di “veicoli fuori uso”, costituiscono rifiuti; c) dal fatto che i frigoriferi usati costituiscono “rifiuti elettrici ed elettronici” (cd. RAEE) la cui spedizione può essere effettuata entro limiti e a condizioni ben precise.

… e quello dei frigoriferi

Quanto ai frigoriferi – si legge ancora nella sentenza – è necessario altresì evidenziare che: a) anche volendo escluderne la natura di rifiuto ed attestarne la qualifica di elettrodomestico usato, la spedizione all’estero è condizionata agli adempimenti “minimi” indicati nella normativa di settore, del tutto mancanti nel caso in esame; b) i “RAEE” possono essere spediti all’estero ai soli fini del trattamento (e non per la rivendita); c) sono in ogni caso vietate le esportazioni di rifiuti destinati allo smaltimento verso paesi esterni all’Unione Europea o verso paesi EFTA non aderenti alla Convenzione di Basilea; d) poiché al Senegal non è applicabile la regolamentazione specifica per questo ambito, la spedizione di RAEE finalizzata al recupero è comunque vietata.

Sulla base di queste stringenti motivazioni, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso – in questo modo confermando, di fatto, la sentenza di condanna della Corte d’appello – e condanna l’imputata al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Commercio di rifiuti: lezioni da una sentenza

Insomma, i rifiuti spediti, o comunque commercializzati, tal quali restano rifiuti. Queste operazioni, svolte in assenza di ogni autorizzazione del caso, quindi, risultano illegali e sanzionabili penalmente.

Questo principio di diritto sulla cessazione della qualifica di rifiuto è ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, come ho avuto modo di dimostrare negli articoli scritti su questo blog e indicati in nota sopra.

Questo offre l’occasione per ribadire qualche considerazione finale sull’“end of waste” e, soprattutto, sulla sua percezione da parte di tanti operatori economici che gestiscono rifiuti.

È evidente che in molti casi questa “percezione”, per chiamarla così, è deviata. O, per dirla tutta, sono lo stesso concetto e la relativa normativa di “cessazione della qualifica di rifiuto” a essere fortemente equivocati; quando non proprio ignorati del tutto.

Tanti – anche nell’esercizio di un’impresa, il che rende la cosa più grave – ritengono di poter maneggiare i rifiuti con grande scioltezza, spesso sulla base di personalissime convinzioni per cui in realtà non si tratterebbe di rifiuti, ma di oggetti o merci normali che, in quanto tali, sarebbero gestibili con la massima libertà, anche sotto il profilo commerciale. Senza porsi particolari problemi in materia di autorizzazioni, normativa, sanzioni, ecc.

Come dovrebbe essere chiaro a chiunque, invece, sentenze come quella raccontata in questo articolo hanno la grande utilità di fungere da promemoria per gli operatori economici: un rifiuto cessa di essere tale solo dopo esser stato sottoposto, in maniera puntuale, al procedimento disciplinato dalla normativa di riferimento, a partire da quella in materia di “cessazione della qualifica di rifiuto”.

Prima di quel momento, l’oggetto in questione sarà sempre e comunque da qualificarsi, ma soprattutto da trattarsi, come rifiuto.

Ogni deviazione da questa retta via comporterà, con altissima probabilità, la sua naturale conseguenza: l’imputazione e, con buona probabilità, la condanna penale; nella più blanda delle ipotesi per il reato di “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” o di “deposito incontrollato di rifiuti”. Ma, come si è visto, all’imputata del processo analizzato in questo articolo è andata peggio, dato che è stata condannata per il ben più grave reato di “traffico illecito di rifiuti”.

Un’ultima nota: la responsabilità diretta delle aziende

Una precisazione finale: quelli esaminati sono tutti Illeciti penali nei quali le conseguenze sanzionatorie sono serie anche e soprattutto perché non riguardano solo le persone fisiche che hanno commesso i reati, ma pure la stessa azienda che viene chiamata a rispondere con il suo patrimonio delle sanzioni pecuniarie e\o interdittive previste dalla legge sulla cosiddetta responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche.

A meno che la stessa impresa non abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione gestione e controllo finalizzato proprio a minimizzare il rischio di commissione di determinati reati al suo interno.

Come accade nel caso di vari altri reati ambientali relativi all’esercizio d’impresa.

È un’annotazione finale cui tutti gli operatori economici dovrebbero riservare la giusta attenzione.

(Articolo pubblicato sul blog di Stefano Palmisano)

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