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Come sconfiggere l’incertezza in Italia su politica e risparmio

Perché gli italiani non vanno in massa a votare e consumano poco. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Gli italiani non vanno a votare e nemmeno consumano. Alle ultime elezioni amministrative la percentuale dei votanti, sul piano nazionale, è stata pari al 54,64 per cento al primo turno ed al 41,65 al secondo. Nelle elezioni precedenti l’affluenza era stata pari, rispettivamente, al 61,58 ed al 52,67. Quanto ai consumi, il loro relativo ristagno dura, seppur con alcune oscillazioni, dal 2011. A partire dal 2019, tuttavia, il fenomeno si è accentuato. Dando origine alla formazione di un ingente risparmio, non certo motivato dai rendimenti (negativi) offerte dalle banche.

L’accostamento tra due fenomeni – elezioni e risparmi – in apparenza così lontani, all’inizio, può sorprendere. Ma basta rifletterci un momento. È il segno più vistoso del prevalere di un’incertezza, derivante dal timore per il proprio futuro. Che, a sua volta, sconta lo sconcerto nei confronti di élite che tali non sono più. O almeno così sono ritenute. Si racconta che nel 1948 i milanesi iniziarono lo sciopero del fumo per non fornire agli austriaci, che allora dominavano il contado, le necessarie risorse finanziarie, sotto forma di tasse, per i sigari acquistati. In quella scelta era evidente l’obiettivo, che si sarebbe manifestato compiutamente nell’epopea del Risorgimento.

Oggi quel paradigma è completamente rovesciato. Non si consuma non solo a causa di una sindrome giapponese (l’invecchiamento demografico), ma soprattutto perché il futuro è oscuro e regna l’incertezza. Ed allora: meglio tirare i remi in barca e, per quanto possibile, accumulare risorse per far fronte ai tempi bui che verranno. Dalla fine del 2018 allo scorso anno, i depositi bancari sono cresciuti dall’85 al 109 per cento del Pil. Poi in questi ultimi dieci mesi i consumi sono ripresi, contribuendo alla straordinaria crescita del Pil, ma senza recuperare lo scarto con gli anni precedenti.

Su un fronte diverso, ma simmetrico, quello dell’establishment finanziario più o meno gli stessi comportamenti. Negli anni che vanno dal 2002 (changeover dell’euro) al 2012 l’Italia aveva fatto ricorso all’indebitamento nei confronti con l’estero (dati di Banca Italia) per un importo pari ad oltre 361 miliardi. A partire dal 2013, invece, il trend si era rovesciato. Nei nove anni successivi la fuga verso l’estero del risparmio italiano, evidenziato nel conto finanziario della bilancia dei pagamenti, è stato pari ad oltre 338 miliardi. Cifra destinata a salire nei prossimi anni, nonostante la bassa qualità degli investimenti. Semplice “portafoglio”. Risorse che contribuiscono, dietro un compenso spesso irrisorio (il prezzo della fuga indotta dalla negatività delle aspettative), a favorire la crescita degli altri Paesi, spesso concorrenti.

Che cosa temono gli italiani, sia alla base che al vertice della piramide sociale? Il ritorno alla palude del dopo Draghi, se non interverrà la divina provvidenza, nel travagliato percorso politico che porterà all’elezione del Presidente della Repubblica e quindi alle nuove elezioni politiche. Paure amplificate dal grande successo del G20. Che ha dimostrato al mondo intero cosa l’Italia sia in grado di fare, se governata da élite consapevoli. Il ritorno ad una presunta normalità politica sarà invece segnata dalle risse permanenti di un ceto che non ha compreso le lezioni della storia. Meditando, ad esempio, con la necessaria attenzione sull’effimero successo dei 5 stelle. Che altro non fu che la conseguenza degli errori compiuti in precedenza da un establishment fin troppo distratto, per pensare ai reali problemi del Paese.

Sono timori motivati? Centro destra e centro sinistra hanno problemi diversi, ma per molti versi coincidenti. Entrambi puntano soprattutto a conquistare i settori più marginali dello spettro politico italiano, abbandonando a se stessa una maggioranza smarrita, che non sa che pesci pigliare e, quindi, rifiuta di prestarsi al gioco stucchevole di elezioni politiche che non cambiano l’andazzo complessivo. Lo si è visto con chiarezza estrema nelle ultime elezioni amministrative, caratterizzate da un’offerta politica – il profilo dei singoli candidati – del tutto inadeguata. Rispondente soprattutto alle esigenze di bilanciamento interno tra le diverse forze politiche ed all’interno di ciascuna di essa delle diverse correnti.

Si spera che tutto ciò possa cambiare in vista delle prossime politiche. Ma è una speranza che, al momento, non sembra avere alcun fondamento oggettivo. Il tutto reso molto più incerto dalla riduzione del numero dei parlamentari e dalla nebbia che avvolge il sistema elettorale. Problemi che si intrecciano rendendo il tutto ben più problematico. Ma con un’unica terribile certezza: non ci sarà spazio per quella rifondazione che l’esperienza di Mario Draghi avrebbe richiesto, per continuare in un percorso, in grado di far emergere le vere qualità, tante o poche che siano, degli italiani.

Ed invece sarà la logica Zan a prevalere. Quella contrapposizione muro contro muro, in difesa di una posizione ideologica, che avrebbe una sua dignità se avesse una condivisione più ampia e non le ostilità che pure si erano appalesate. Al punto da costringere la stessa CEI (Conferenza episcopale italiana) a scendere in campo, per invocare prima moderazione. Quindi per prendere atto, con soddisfazione, della bocciatura di un provvedimento che aveva il crisma dell’”intolleranza”. Un errore evidente: che tuttavia non nasce per caso. C’è un elemento di forte continuità nella tradizione, che ha accompagnato i mutamenti ed i turbamenti di una forza come il PD. L’esigenza di non avere nemici a sinistra. “Pas ennemies a gauche”: come si è ripetuto da tempo immemorabile. Il che spiega le metamorfosi dei vari segretari del partito: nati come riformisti, per poi cedere al massimalismo “senza se e senza ma” delle minoranze più impegnate.

Nel centro destra, la rincorsa invece è a segnare il confine. Prevarrà la Lega o Fratelli d’Italia? Più un derby che non un’alleanza politica: comunque destinata a rimanere ristretta negli angusti confini dell’opposizione. Il che spiega l’impegno profuso nell’inseguire i settori più marginali: siano essi i no vax o gli scettici europei. Un numero molto limitato, rispetto ad un elettorato che ha compiuto scelte diametralmente opposte – basta vedere i dati sui vaccini – ma tale da assicurare quel vantaggio competitivo in grado di far dire: siamo il primo partito del centro destra. Come si questo posizionamento fosse, poi, la premessa per ulteriori sviluppi di natura istituzionale. A partire dall’eventuale conquista di Palazzo Chigi.

Se quello descritto è lo scenario, si comprendono meglio le premesse da cui siamo partiti. Non si va a votare e ci si prepara al peggio, cercando di risparmiare il più possibile. Fenomeni che incidono su tono complessivo di un’opinione pubblica che non brilla certo di entusiasmo, ma guarda alla congiuntura più immediata con un misto di meraviglia e di incredulità. Sperando che la magia di Mario Draghi possa durare all’infinito. In attesa che qualcosa cambi nel profondo.

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