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Come evitare condizioni-capestro per i prestiti Ue all’Italia?

Fatti, problemi e prospettive sui progetti in cantiere nell'Ue per finanziare gli Stati alle prese con la crisi economica da Covid-19. L'analisi di Gianfranco Polillo

Nella cassetta degli attrezzi delle relazioni finanziarie di carattere internazionale esistono grant e loans, entrambi utilizzati nel Piano Marshall, ma strumenti diversi di cui è bene capire la differenza. I primi sono semplici sovvenzioni (finanziamenti a fondo perduto) che non danno luogo all’onere del rimborso. I secondi sono invece prestiti, seppure agevolati, ma comunque gravati da tasso di interesse, con scadenze e modalità di rimborso predeterminate.

Nelle vicende interne europee, a proposito di eurobond e dintorni, non sembra che questa distinzione sia stata effettivamente compresa. Tant’è che i principali quotidiani (dal Corriere al Fatto quotidiano) hanno titolato soprattutto sugli “aiuti” negati. Mentre lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte ha parlato, più volte, di uno “strumento di debito comune”. Formulazione più che ambigua agli occhi del non specialista. Quasi a lasciar intendere che lo stesso debito possa essere comune. Quando, invece, purtroppo il “debitore finale” resta sempre distinto. Altrimenti non sarebbe più loan (prestito), ma grant (aiuto).

La necessaria intesa, a livello europeo (pena una catastrofe inimmaginabile) non può prescindere da queste considerazioni di carattere più generale. Lo shock che deriva dal coronavirus, sarà “simmetrico” quanto si vuole. Ma le sue conseguenze varieranno da Paese a Paese. Dipenderà innanzitutto dalla dimensione e lunghezza dell’epidemia. Quindi dalle misure assunte: distanziamento, lockdown, e via dicendo. Dipenderà anche dalle condizioni ex ante di ciascun Paese. Anche a parità di intensità dell’epidemia, un conto è la situazione tedesca, olandese o austriaca, che parte da un rapporto debito/Pil intorno al 50 per cento. Un altro è quello della maggior parte dei Paesi mediterranei, che sono intorno al 100 per cento. Se non al 130 come in Italia.

Immaginiamo che l’epidemia comporti, a seguito delle misure prese per far fronte al cataclisma socio-economico, che il rapporto debito/Pil aumenti in media di 15 punti di Pil. Cifra realistica stando alle previsioni. Per l’Italia sarebbe un picco del 150 per cento. Le conseguenze finanziarie derivanti da un aumento occasionale e di identico ammontare per ciascun Paese non sarebbero le stesse. Senza alcun intervento condiviso, l’effetto immediato sarebbe un aumento degli spread per i Paesi più indebitati. Onere maggiore che non riguarderebbe solo la tranche di debito dovuto al coronavirus, ma si estenderebbe a tutto il debito pregresso, da contabilizzare in occasione di ogni rinnovo dei titoli in scadenza.

Con quali conseguenze? Nel 2018, secondo i dati Eurostat, il debito pubblico tedesco è stato pari a 2.069 miliardi, quello italiano solo di poco superiore, pari 2.380 miliardi. Ovviamente, data la diversa dimensione del Pil, il rapporto è stato ben diverso: 61,9 a Berlino, 134,8 a Roma. La spesa per interessi, nei due paesi è stata invece pari allo 0,9 per cento del Pil nella Repubblica federale. Al 3,7, quattro volte tanto, nel Bel Paese. Negli anni successivi quelle distanze non sono diminuite ma aumentate. Il Ministero delle finanze tedesco rinnova, infatti, i titoli in scadenza ad un tasso d’interesse, data la forza del Bund, sempre minore, addirittura negativo. In Italia gli spread ne fanno continuamente lievitare il costo. Le differenze sono evidenti.

Il conto del coronavirus non sarebbe, quindi, lo stesso. Più pesante, a parità di condizioni epidemiologiche, per i Paesi indebitati, più lieve per gli altri. Se fossimo in pieno ‘900 sarebbe stato inevitabile. Ciascun Paese doveva piangersi i suoi morti e provvedere ai vivi. Ma ciascuno aveva a disposizione più strumenti per poter intervenire: dal tasso d’inflazione, come mezzo per ripartire e diluire tra tutti i propri cittadini l’onore della catastrofe, alla svalutazione monetaria, all’utilizzo delle riserve auree della Banca centrale. In passato l’Italia li ha tutti utilizzati. Ma se il patto sottoscritto è stato quello di rinunciare a questi spazi di sovranità nazionale, per un impegno collettivo. Allora è lecito attendersi dall’Europa, che la stessa si faccia carico degli impegni derivanti dal contratto sociale sottoscritto. Altrimenti che ci si sposa a fare?

Cosa chiedere e pretendere? Non certo grant. Ossia aiuti: sovvenzioni a fondo perduto. Anche se per il debitore finale sarebbe un benvenuto. Se l’Europa avesse avuto a disposizione un bilancio degno di uno Stato federale, ci sarebbe, pure, potuto stare. Negli Usa, come ha ricordato Luigi Zingales, alle conseguenze di Katrina, il ciclone che sconvolse New Orleans, si provvide con il bilancio dell’Unione. Ma il budget europeo è quello che è. Anche volendo, non vi sarebbero le possibilità, se non al termine di una battaglia per implementarlo dagli esiti incerti, e con tempi biblici. Ed allora sarà inevitabile ricorrere a dei loan: evitando tuttavia clausole capestro, sia per il rimborso che per i tassi d’interesse.

Eurobond, o meglio “European Recovery Bond”, come dice il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in assonanza con l’European Recovery Plan di Marshall? Fossero fattibili, certamente. Ma se vi fossero ostacoli insormontabili e non solo di natura politica, perché fissarsi sullo strumento? L’importante è l’obiettivo: ridurre al minimo il costo dell’indebitamento aggiuntivo derivante dalla lotta al coronavirus e dalle necessità della successiva ripartenza. Per l’Italia, volendo quantificarlo, il target dovrebbe essere rappresentato da uno spread non superiore ai livelli del 2019.

Se fosse sufficiente il maggior tiraggio della Bce, con i suoi 220 miliardi previsti per l’Italia, bene. Altrimenti dovranno essere utilizzati ulteriori strumenti. Dovremmo ottenere prestiti da investitori istituzionali (la Bei, il Mes o altri soggetti pubblici o privati, assistiti o meno da specifiche garanzie comuni) che non comportino, come collaterale, l’emissione di titoli di stato ordinari da parte dell’Italia. Titoli eventualmente dedicati e non negoziabili sul mercato, per non aumentare la zavorra che pesa alle varie scadenze del rinnovo debito pubblico pregresso. In compenso l’Ente creditore potrebbe finanziarsi sul mercato. Ma avendo un merito di credito maggiore, spunterebbe un tasso di interesse più basso.

Se questo è uno dei possibili schemi, non ha senso impuntarsi sulle pregiudiziali. Coronabond o morte. Meglio discutere sulle condizioni generali che dovrebbero caratterizzare l’erogazione dei finanziamenti: tasso di interesse, scadenze, garanzie. Si: garanzie. Queste sono un elemento fondamentale di ogni rapporto di natura economica-finanziaria, a meno di non voler generalizzare la logica sottesa al “reddito di cittadinanza”. Ti finanzio, pur sapendo che i tuoi impegni, nella maggior parte dei casi, sono promesse da marinaio. Ma così si tornerebbe ai grant. A quegli aiuti con cui per anni si è cercato, senza successo, di risolvere il problema della “fame nel mondo”, per poi doversi, seppure parzialmente, arrendersi di fronte ai successi della globalizzazione.

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