Oggi e domani il Presidente Mario Draghi illustrerà alle Camere i contenuti del Recovery Plan che si appresta ad inviare a Bruxelles entro la scadenza, peraltro non perentoria, del 30 aprile.
Dopo due giorni di frenetici contatti tra gli uffici del Mef e della Commissione, ieri pomeriggio si è finalmente avuto un testo definitivo a disposizione dei parlamentari.
Il documento racconta di 191 miliardi di investimenti finanziati dalla Commissione a cui si aggiungono 31 del Fondo nazionale complementare e 13,5 del fondo React UE. Sottraendo 53,2 miliardi che finanzieranno progetti già in essere a legislazione vigente, avremo circa 183 miliardi di investimenti aggiuntivi fino al 2026.
Giusto per avere un paragone nel 2021 l’Italia emetterà titoli pubblici, tra rimborsi e fabbisogno aggiuntivo, per 597 miliardi. 30 miliardi l’anno aggiuntivi per sei anni consecutivi, circa l’1,7% del Pil annuo, sono quanto un Paese dovrebbe fare normalmente, a maggior ragione dopo un decennio di forte contrazione degli investimenti pubblici e dopo una recessione che non ha precedenti in tempi di pace.
Una massa sicuramente significativa ma nulla che non sarebbe stato possibile fare, sin dalla scorsa primavera, senza mettere in piedi un infernale carrozzone burocratico che ci accompagnerà fino al 2026, per gestire il quale la Commissione assumerà altre 100 persone e dovrà lavorare ancora 2 mesi per approvare i piani, dopo altri 8 passati in intense interlocuzioni informali con le strutture tecniche degli Stati membri. Una fatica di Sisifo. A tal proposito la Commissione ha già fatto sapere che non intende rinunciare alle 8 settimane a sua disposizione per valutare i piani, anche perché il lavoro da fare sarà tanto a giudicare dalle 50.000 pagine che compongono il recovery plan di uno Stato membro non meglio identificato.
Per ottenere quale risultato? Il Piano prevede che nel 2026 il Pil sarà più alto del 3,6% rispetto allo scenario base tendenziale, cioè registreremo un Pil più alto di circa 60/70 miliardi, a cui arriveremo a piccoli passi pari a circa 10/12 miliardi l’anno, costantemente meno del 1% del Pil di ciascun anno. Sicuramente utile per il nostro Paese, ma certamente molto lontano dall’impulso rapido e consistente che sarebbe stato necessario. Basti pensare che nel 2020 il Pil è calato di 150 miliardi circa. E questo solo nello scenario migliore di un moltiplicatore cumulato di 1,2 tra investimenti e Pil, altrimenti la crescita sarebbe dimezzata al 1,8%.
Fatta questa decisiva premessa, il Piano del Presidente Mario Draghi e del ministro Daniele Franco segna un netto scarto rispetto al fumoso documento lasciato in eredità da Giuseppe Conte a gennaio, per almeno tre aspetti. Uno solo dei quali, le riforme, è già sufficiente a capire perché l’avvocato pugliese sia tornato alla sua cattedra universitaria.
Nel merito della ripartizione degli investimenti, rileviamo che nel fondo complementare di 31 miliardi — di cui Palazzo Chigi sottolinea come elemento rilevante l’assenza di obbligo di rendicontazione verso Bruxelles — ben 8 miliardi sono assorbiti dal superbonus 110% per l’edilizia. Quando qualcosa serve la si finanzia, Bruxelles volente o nolente. Ma a questo punto sorge il dubbio se sia rimasto ancora qualcosa fuori o, peggio, nei 191 miliardi sono entrati investimenti graditi solo alla Ue. E sorgono anche perplessità sulla ripartizione dei 191 miliardi nelle sei categorie di spesa (missioni), tra cui primeggiano transizione ecologica e digitale col 38% e 20% ciascuno. Siamo proprio sicuri che sono gli investimenti di cui il Paese necessita dopo una crisi che ha indebolito imprese che fino a ieri stavano dignitosamente sul mercato e poi sono andate in difficoltà solo per l’improvvisa assenza di clienti decretata per legge?
In secondo luogo, rileviamo che il Piano si è liberato della fumosa prosopopea che raccontava di un’occasione storica. Oggi prevale il pragmatismo: maggiore profondità ed analiticità nella descrizione dei progetti, numeri e poco spazio per frasi buone solo per convegni.
Un terzo elemento di differenza è costituito dalla necessità di seguire per filo e per segno le richieste di coerenza tra le raccomandazioni Paese 2019 e 2020 della Commissione ed il Piano, soprattutto per quanto riguarda le riforme. In particolare, è evidente la differenza tra il dettaglio con cui si illustrano le riforme della pubblica amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza, e l’evasività con cui si tratta la riforma fiscale, in cui siamo ancora all’”auspicabile”. Basteranno alla Commissione, assetata di obiettivi qualitativi e quantitativi da conseguire in tempi certi, due righe sulle pensioni e sul superamento di quota 100 a fine 2021, per ritenersi soddisfatta? Le concitate 48 ore che hanno preceduto il deposito del documento alle Camere, lasciano intendere che il fronte con la Commissione sia tuttora aperto.
Potrebbe provvisoriamente esserci un armistizio, e quindi potremmo ricevere l’anticipo entro la fine di settembre, ma cosa accadrà per le successive richieste di pagamento semestrali? In quel momento la Commissione, prima di pagare, dovrà attentamente valutare il conseguimento degli obiettivi prefissati e basteranno le perplessità di un solo Stato membro per portare la questione davanti al Consiglio Europeo in un confronto che promette di trasformarsi in una battaglia campale.
Sorge quindi spontaneo il dubbio finale: se perfino il Portogallo, primo Paese a presentare ufficialmente il Recovery Plan, ha deciso di sfruttare tutti i 14 miliardi di sussidi e prendere solo 2,3 miliardi di prestiti, pur avendo disponibilità fino a 14, è proprio il caso di finanziare il piano indebitandosi per 120 miliardi con la Ue solo perché avverrebbe a tassi più bassi di un BTP, senza però tenere conto del carico di condizioni, vincoli e burocrazia che graveranno quegli investimenti? È stato tenuto conto che tra quelle condizioni ci sarà il rispetto del Patto di Stabilità, di per sé recessivo, quando sarà disapplicata la clausola di salvaguardia? Oggi scegliere quei prestiti sarebbe come scegliere un mutuo ipotecario rispetto ad uno chirografario solo perché il tasso è più basso. Gli stessi motivi che ci hanno tenuto lontani dal prestito del Mes.