Fin dal biennio 2018-2019 con due articoli pubblicati su questa testata, sostengo la possibilità e l’utilità di vendere gradualmente una quota delle ingenti riserve auree possedute dall’Italia. Una posizione per molti economisti ancora oggi ritenuta “non ortodossa”.
L’unico obiettivo di questa scelta di politica economica, complessa e difficile, è esclusivamente quello di:
- ridurre il nostro elevato debito pubblico (circa 3.100 miliardi di euro):
- non alimentare una già elevata spesa pubblica (circa 1.000 miliardi di euro);
- vedere l’aumento delle quotazioni dell’oro di circa quattro volte rispetto a 7 anni fa (circa 4.100 $ all’oncia), con il valore delle nostre riserve auree arrivato a circa 300 miliardi di euro (circa 200 miliardi di euro nel 2018) come una importante novità.
La riduzione del debito pubblico italiano è una priorità storica di politica economica ancora non risolta e difficilmente risolvibile che ingessa da decenni la nostra economia e la finanza pubblica e che impedisce la liberazione di risorse pubbliche destinate allo sviluppo, la riduzione di una già elevata pressione fiscale e la compressione del pagamento “mostre” di interessi sul debito pubblico (mediamente pari a circa 75/85 miliardi euro a seconda dell’anno di riferimento). La vendita di parte delle riserve auree potrebbe dare un contributo al conseguimento di questo obiettivo prioritario per il nostro Paese.
Entrando nel merito della nostra analisi, da un punto di vista macro, l’Italia è notoriamente il terzo Paese per tonnellate di oro possedute come riserve auree (2.452 t.) preceduta dagli USA (8.133 t.) e Germania (3.351 t.) e seguita da Francia (2.437 t.), Russia (2.330 t.), Cina (2.304 t.), India (880 t.), Giappone (846 t.) e Gran Bretagna (310 t.).
Effettuando una prima elaborazione tra il valore del Pil dei primi 9 Paesi al mondo (Fonte: FMI, 2025) con il valore delle loro riserve auree (quotazione dicembre 2025), il risultato che emerge è di particolare interesse: in Italia le riserve auree rappresentano circa il 12,2% del Pil, valore superato dalla sola Russia con circa il 13% del Pil. Il nostro Paese, ad esclusione della Russia, precede nell’ordine: Francia (9,1% del Pil), Germania (8,3%) e, a molta distanza, USA (3,8%), India (2,5%), Giappone (2,4%), Cina (1,4%) e Gran Bretagna (1%).
Una situazione paradossale plasticamente sintetizzata con due esempi: l’Italia ha un numero di tonnellate di oro simile alla Cina ma con un Pil 9 volte inferiore; l’Italia ha 3 volte le tonnellate di oro rispetto al Giappone ma con circa la metà del Pil giapponese.
Un confronto dimensionale che ha i suoi limiti ma che è indicativo al fine di rendere la discussione sul tema meno pregiudizievole e che ci porta a fare due considerazioni.
La prima considerazione è che l’Italia ha uno stock di riserve auree molto superiore rispetto alla ricchezza prodotta in particolare se confrontata a quella di economie più avanzate.
La seconda considerazione è che i grandi Stati dell’Unione europea, come Germania, Italia e Francia, probabilmente per motivazioni storiche, benché appartenenti all’euro notoriamente moneta internazionale e forte, diano una importanza particolare nel possedere ampie riserve auree rispetto ad altri “pivot” economici mondiali, probabilmente non giustificate considerata la solidità e le caratteristiche dell’euro.
L’analisi e le considerazioni di tipo macro danno supporto ad un approfondimento di tipo tecnico-operativi della nostra proposta. Il modello generale suggerito in questo articolo, inserito in un più ampio piano di rientro decennale del debito pubblico comunicato preventivamente ai mercati e in accordo con la BCE, è quello della vendita graduale o “less is more” sull’esempio tedesco degli ultimi vent’anni, ma anche di Francia (realizzato tra il 2004 e il 2009), Gran Bretagna (a cavallo degli anni 2000) e Spagna (tra il 2005 e il 2007). Per citare alcuni casi europei ma gli esempi potrebbero risultare numerosi.
Solo l’Italia, nei decenni, ha accumulato riserve senza mai venderne un grammo cosa che non ha impedito crisi (come quella del debito sovrano del triennio 2010-2012) e la stagnazione economica degli ultimi 15 anni. Come se una famiglia inondata dai debiti e assediata dai creditori decidesse strenuamente di non vendere parte del proprio patrimonio per risanare il tutto e ripartire e semmai ricomprare quanto venduto in precedenza. Una decisione almeno discutibile.
Scendendo maggiormente nel dettaglio, la determinazione della quantità di oro da vendere gradualmente dovrebbe essere quantificata della differenza tra il prezzo dell’oro al tempo t rispetto al tempo t -1. Ad esempio, se la scelta del periodo di riferimento cadesse tra il 2019 (tempo t-1) e il 2025 (tempo t), il risultato sarebbe un surplus pari a circa 100 miliardi di euro, eventualmente da incrementare/calcolare ogni anno secondo un approccio dinamico e non statico (le stime di crescita del valore dell’oro sono positive per il 2026/27). Ciò consentirebbe di mantenere il valore delle nostre riserve auree ai livelli dell’ultimo decennio pari a “quota 200 miliardi di euro”. Un valore doppio rispetto ai primi anni 2000.
Ciò ci insegna che la scelta del periodo di riferimento è strategica e lo scenario attuale è per certi aspetti favorevole. Aspetto temporale da non sottovalutare in quanto alcune scelte di politica economica al di là delle loro potenzialità, devono tener conto anche nel momento storico in cui sono fatte al fine di evitare, ad esempio, gli errori della Gran Bretagna, che vendette ingenti quote di oro tra il 1999 e il 2002 con le quotazioni fortemente al ribasso.
Le quotazioni dell’oro in forte rialzo (stime in crescita anche per il 2026) e il cambiamento in meglio della nostra finanza pubblica degli ultimi anni con la ritrovata fiducia dei mercati, dal miglioramento del rating alla forte riduzione dello spread (minimi dal settembre 2008) alla probabile uscita nel 2026 dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo, sono ottime condizioni di scenario.
Nonostante questi e altri argomenti, molti economisti sono contrari a qualsiasi proposta di vendita per varie motivazioni, dalla perdita di credibilità internazionale agli impedimenti giuridici ai Trattati Ue. Argomenti legittimi e condivisibili e necessariamente da superare ma non sufficienti per impedire all’Italia ciò che hanno fatto nel recente passato alcuni importanti Paesi dell’Ue.
Affrontare seriamente la questione senza pregiudizi e ragionare sull’opportunità offerta dalle elevate quotazioni dell’oro. Questa è l’unica strada percorribile per ridurre il nostro debito pubblico e la ‘montagna’ assurda di interessi che paghiamo annualmente sul debito pubblico e liberare negli anni le risorse finanziare pubbliche necessarie per lo sviluppo del nostro Paese e la crescita delle nostre imprese.




