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Via Della Seta

La Via della Seta si è interrotta?

lI progetto della Nuova via della seta è centrale nella strategia di Pechino per estendere la propria influenza politica attraverso ingenti investimenti in infrastrutture. Ma qualcosa si è inceppato, la debolezza della crescita interna ha esaurito il flusso degli investimenti all’estero. L'analisi di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR.

L’11 dicembre 2001 è una data iconica nella storia moderna, la Cina venne accolta a pieno titolo nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Per ottenere l’accesso ai mercati internazionali Pechino dovette aprire il paese alla concorrenza delle società straniere, eliminare oltre 7.000 tariffe, quote contingentate alle importazioni e altre barriere. Il pay-off è stato però estremamente generoso: l’ammontare degli investimenti diretti nel paese raddoppiò, le esportazioni esplosero. Prendiamo Walmart, ad esempio, il gigante americano della distribuzione: nella prima fase dopo l’accordo importava dalla Cina merce per quindici miliardi di dollari, dieci anni dopo quel valore era passato a poco meno di cinquanta miliardi di dollari.

La Cina nel WTO ha sconvolto gli equilibri e ha cambiato il profilo dell’economia globale, ha sperimentato una spettacolare storia di crescita con tassi a doppia cifra. Ma le pratiche disinvolte di imitazione e di elusione delle regole ha creato attriti crescenti con gli altri paesi, in particolare con gli Stati Uniti.

In questo ampio disegno globale si iscrive l’uscita dell’Italia dagli accordi della Via della Seta, l’iniziativa di Pechino nata con lo scopo di estendere l’influenza economica e soprattutto politica con imponenti investimenti in infrastrutture. Con la nota consegnata al governo cinese nei giorni scorsi l’Italia si affranca da una iniziativa marcatamente politica cercando di mantenere, naturalmente, le buone relazioni commerciali.

LA VIA DELLA SETA È UN AFFARE PER LA CINA

La Belt and Road Initiative è stato un affare soprattutto per la Cina che ha avuto accesso a risorse come petrolio, gas e minerali. Dal 2013, quando venne avviato il progetto, la Cina ha scambiato con i paesi aderenti all’iniziativa merci per circa diciannove miliardi di dollari, una diversificazione delle fonti di approvvigionamento che si è rivelata cruciale mentre crescevano le tensioni con gli Stati Uniti.

Quest’anno l’anniversario dell’11 dicembre cade in una fase delicata per l’economia cinese, il progetto della Via della Seta arranca mentre in patria calano la spesa in consumi, gli investimenti delle imprese, le esportazioni; e mentre la maggior parte dei paesi è alle prese con l’inflazione, in Cina si moltiplicano i segnali di deflazione.

UN PROGETTO CHE PERDE FORZA

L’iniziativa della Via della Seta perde forza, il rallentamento della crescita ha fermato gli investimenti, il governo cinese non riesce a incassare i crediti che ha con i paesi a basso reddito aderenti alla Belt and Road Initiative, flussi di denaro preziosi per alleviare il debito interno, concentrato nelle amministrazioni locali.

Si allungano anche le ombre della deflazione, minaccia che si era presentata in luglio; a novembre i prezzi alla produzione su base annua sono scesi del 3%, quelli al consumo dello 0,5%, il calo più marcato degli ultimi tre anni. La deflazione complica l’agenda del governo, la Cina si trova in una sorta di long-Covid economico, la riapertura delle frontiere e la ripresa della mobilità a inizio anno non hanno sostenuto la domanda dei consumatori come ci si aspettava e il governo, attento al debito, esita a promuovere ingenti misure di stimolo o salvataggi delle società immobiliari. Moody’s ha portato a negativo l’outlook sul rating cinese, le ragioni sono le più deboli prospettive di crescita e le probabilità che siano necessari interventi a sostegno delle amministrazioni locali.

Anche il renmimbi non aiuta le ambizioni di Xi Jinping. La delusione della mancata ripartenza ha indebolito la moneta del popolo facendo peggiorare le ragioni del cambio con il dollaro, il recente apprezzamento non è dovuto a meriti interni ma al movimento del dollaro nei confronti delle altre valute.

La debolezza del cambio non ha comunque impedito alla valuta cinese di crescere nell’uso come moneta di scambio nelle transazioni commerciali globali: la quota del renmimbi è passata da 1,9% di gennaio a 3,6% in ottobre.

La Cina è alla testa del movimento dei paesi del sud del mondo federati nel desiderio di affrancarsi dall’influenza del dollaro, acuito dopo le sanzioni imposte alla Russia nel 2022.

L’OBIETTIVO DI PECHINO

L’obiettivo ambizioso del governo cinese è ridurre la dipendenza dal dollaro americano e portare il renmimbi alla dignità di valuta internazionale. Una strada ancora lunga, il 3,6% del renmimbi è molto lontano dalle quote del dollaro (47,2%) e dell’euro (23,3%) e, inoltre, il renmimbi conserva il peccato originale della non convertibilità, le aziende che regolano le loro esportazioni con la valuta cinese possono impiegarla solo per acquistare merci in Cina e in pochi altri paesi.

Oggi, nessuno parla più di rapporto di simbiosi tra Stati Uniti e Cina che però restano due economie mutualmente dipendenti e la loro relazione, per quanto sfilacciata e diffidente, deve adeguarsi al nuovo ambiente. Del resto, è la lezione di Darwin, non è il più forte che sopravvive ma chi si adatta meglio al cambiamento.

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