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Quota 100

Chi vuole bombardare i contratti di lavoro?

Lo sapete che cosa si è detto alla conferenza organizzativa della Cgil su Spagna e contratti di lavoro a termine? Il commento di Giuliano Cazzola

 

“La pioggia in Spagna bagna la campagna’’: è uno scioglilingua che (con qualche accomodamento) è divenuto celebre grazie ad un vecchio film (My Fair Lady) di cui era protagonista la grande Audrey Hepburn. Alla conferenza di organizzazione della Cgil di Rimini, la Spagna è stata chiamata in causa da Pier Paolo Bombardieri (omen nomen) a proposito di un’intesa tra governo e parti sociali sulla riforma dei contratti a tempo determinato. Il segretario generale della Uil, nel suo intervento di saluto (lo abbiamo visto sugli schermi televisivi con il volto delle grandi occasioni, a pronunciare il suo ‘’dado è tratto’’) ha affermato che si deve chiedere al governo di seguire l’esempio della Spagna dove i contratti a termine sono stati aboliti. Il che, come vedremo, non corrisponde a verità. La situazione di quel paese è molto diversa dalla nostra, in quanto la quota di lavoro a termine è ora pari al 25% dei rapporti di lavoro subordinato (in Italia, in linea con la media europea, siamo stabilmente intorno al 12-13%). Poi le assunzioni a termine fanno parte della fisiologia del lavoro per sostituire lavoratori o affrontare lavori stagionali e picchi produttivi. E’ quanto si è stabilito in Spagna, su impulso della Commissione europea che aveva condizionato l’erogazione della prima tranche (12 miliardi) del Recovery fund ad una riforma del marcato del lavoro. I contratti a termine non potranno durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno. Come si vede, sembra eccessivo parlare di abolizione, anche se il ridimensionamento è evidente, con riguardo però ad una disciplina precedente che non aveva riscontri attendibili con quella italiana.

Poi non è corretto ‘’fare i furbi’’: scegliere ‘’fior da fiore’’ dalle regole del mercato del lavoro di un altro paese e cogliere ciò che serve. La differenza tra la disciplina del rapporto di lavoro spagnolo con quello italiano, riguarda in via prioritaria le norme del licenziamento.

Se il Giudice del lavoro, su ricorso del lavoratore, ritiene e il licenziamento come “improcedente” (illegittimo) condanna l’azienda a pagare al dipendente licenziato una indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Non sembrano necessarie molte spiegazioni per individuare le differenze con l’ordinamento del recesso vigente in Italia (compreso quanto previsto nel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al dgls n. 23/2015).

Da noi – prima della legge n.604/1966 (che introdusse il giustificato motivo) e della legge n.300/1970 (che stabilì l’obbligo di reintegra) – quando vigeva il licenziamento ad nutum ex articolo 2118 del codice civile (vi era solo l’obbligo del preavviso), il ricorso al lavoro a termine era fortemente limitato dalla legge n.230/1962 in cui erano delle rigide causalità. Come stabiliva l’articolo 1:
‘’Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate.

E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto:
a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima;
b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempre che nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;
c) quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale;
d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente, impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell’ambito dell’azienda;
e) nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli.

L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto.

Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore.

La scrittura non è tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro puramente occasionale non sia superiore a dodici giorni lavorativi’’.

Peraltro l’articolo 2119 prevede (tuttora) che il contratto possa essere risolto prima del termine soltanto per giusta causa.

‘’Bombardando’’ il contratto a tempo determinato, il leader della Uil si è adeguato all’ambiente dell’Assemblea organizzativa della ‘’sorella maggiore’’ dopo che il padrone di casa si era lanciato in una intemerata verso il governo: ”Nel confronto col governo e le imprese vogliamo lanciare un messaggio secco: basta precarietà – ha scandito Maurizio Landini – “Bisogna porre fine a questa forma di lavoro che impedisce qualsiasi progetto di vita a tanti giovani, tante donne, che ostacola la crescita e lo sviluppo del Mezzogiorno. Basta precarietà vuol dire cancellare forme di lavoro che negano la dignità delle persone e ne favoriscono lo sfruttamento”.

Queste cose accadono quando, tra poco più di un mese, sarà ricordato il XX anniversario dell’assassinio di Marco Biagi per mano delle Br.

Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più ‘’unico’’, anche se a lungo si era pensato che questa fosse una soluzione possibile) sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

La legislazione più recente, fino al jobs act, ha seguito questa strada. I tentativi di deviazione – come il c.d. decreto Dignità – sono miseramente falliti, perché una maggiore flessibilità del lavoro non è un attacco della Reazione in agguato, ma un’esigenza del mercato del lavoro.

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