Oggi due professori – Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera e Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore – ci spiegano perché la Ue non serve a nulla e, spesso, produce danni. Ma anziché trarne le conseguenze, preferiscono la fuga verso soluzioni “lunari”.
Poi sul Fatto Quotidiano c’è un altro professore – Pasquale Tridico europarlamentare del M5S – che crede alla favola di Ursula von der Leyen incapace e sprovveduta di fronte a quel vecchio marpione di Donald Trump e ne chiede la rimozione con una mozione di sfiducia. Riducendo quindi tutto all’abilità personale – nemmeno Mandrake avrebbe potuto fare di meglio – e perdendo di vista il ruolo decisivo della Ue e del suo assetto istituzionale disfunzionale nel determinare l’esito del negoziato con gli Usa sui dazi.
Ma al M5S sono fatti così. Spesso ragionano “ad personam” ed a breve periodo (ricordiamo che sono stati loro ad essere “decisivi” per l’elezione della von der Leyen nel primo mandato), perdendo di vista la prospettiva.
Archiviato Tridico, ci concentriamo sugli interessanti spunti forniti da Giavazzi e Fabbrini.
Il primo ci fa sapere che la vicenda dei dazi è un “grande cinema”, ovvero “un comodo diversivo” per oscurare “due questioni esistenziali”. La prima delle quali, sul fronte Usa, è la perdita della centralità del dollaro e il “rischio che i titoli pubblici americani continuino ad essere il rifugio sicuro per i risparmi dei cittadini di tutto il mondo”. Alla fine, anche Giavazzi è convinto che sia un “rischio poco probabile”.
Sul fronte europeo invece la sfida è più complessa, perché il problema è la “produttività della nostra economia”. E qui Giavazzi ci racconta – senza fare una piega – il conclamato fallimento della Ue. Infatti “dopo mezzo secolo (1945-1995) durante il quale eravamo riusciti ad annullare la distanza dagli Usa nel nostro reddito pro-capite, questo divario negli ultimi trent’anni si è di nuovo allargato”. A suo parere le cause sono state “la lentezza nell’adozione delle tecnologie digitali e “il non essere stati capaci di sfruttare i benefici del mercato unico, potenzialmente più esteso di quello Usa, e che rimane invece fortemente segmentato”.
Non avremmo saputo trovare parole migliori per descrivere il fallimento della Ue e del suo assetto istituzionale. Perché Giavazzi finge di non sapere che quelle cause che lui elenca sono proprio le promesse della Ue. Infatti, 33 anni fa ci dotammo di quell’assetto proprio in virtù della promessa di essere “grandi tra i grandi”, perché c’era la Cina, c’erano gli Usa con cui competere e gli “staterelli nazionali” erano inadeguati alla sfida. Sono passati tre decenni e ci ritroviamo a prendere atto che la promessa non è stata mantenuta. Puramente e semplicemente. Dove sono finite le magnifiche sorti e progressive promesse da Romano Prodi col suo “con l’euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”?
Serve altro per prendere atto del fallimento di un progetto politico che non ha portato il maggior benessere promesso e fa rimpiangere anche a Giavazzi i risultati del mezzo secolo precedente alla UE, quando tenevamo testa agli Usa senza prendere ordini da Bruxelles?
Gli specifici problemi che lui elenca a proposito dell’Italia (bassa produttività del lavoro per uno spostamento dell’economia verso servizi a basso valore aggiunto, eccessivo costo dell’energia) sono anch’essi quelli che una Ue funzionante avrebbe dovuto aggredire e risolvere. Ma purtroppo si ferma al dito e non vede la luna.
Ma veniamo a Fabbrini. Qui il livello dell’analisi si alza perché intende trovare delle “cause politiche” alla “capitolazione” e “all’umiliazione” dell’Europa.
La prima è la mancanza “di una campagna delle idee per contrastare la narrativa trumpiana”. Insomma ci siamo fatti dettare l’agenda e la piattaforma negoziale. Perché abbiamo mandato a negoziare “un organismo tecnocratico” e non politico, quando dall’altra parte c’era un “iperpolitico Trump”.
La seconda è l’assenza di una strategia “perché la Ue semplicemente ha difficoltà ad elaborarla”. Fabbrini ci racconta dell’America che “è andata alla negoziazione con l’unica voce del proprio capo politico, mentre la Ue vi è andata con voci discordanti e tra loro confliggenti […] molte voci, molte divisioni” conclude. Con “la von der Leyen che non ha alcun elettorato a cui rispondere” (a differenza della forte investitura ricevuta da Trump).
La terza consegue alla seconda, perché la mancanza di una testa politica è la conseguenza della “difficoltà nel definire un proprio interesse collettivo, nella Ue ogni governo nazionale ritiene che il proprio interesse coincida con quello europeo”.
E qui arriva il colpo di teatro. In primo luogo crede l’esito del negoziato sia solo colpa dell’inesistenza di un vagheggiato “interesse europeo”, che però esiste solo nei suoi pii desideri. In secondo luogo ammette che la Ue è andata a promuovere “interessi nazionali” ed ha fallito, perché “separati, perdono”. Allora la soluzione magica è sempre quella: la Ue non funziona? Ce ne vuole di più! Insomma, se la Ue non è stata capace di imporre i termini del negoziato e una strategia negoziale, quale migliore occasione per prendere atto della sua incapacità strutturale?
Invece, siamo all’invocazione di un “interesse europeo che può emergere solamente da un processo elettorale sovranazionale […] dotando la Ue di una sua capacità politica”.
Allora concludiamo, facendo notare sommessamente a Fabbrini che quella capacità politica della Ue che lui invoca è stata ripetutamente bocciata dagli elettori di diversi Stati (Francia in testa). Che facciamo, la imponiamo con la forza? O prendiamo atto che l’incapacità e dannosità della Ue è stata dimostrata con prove inconfutabili che egli stesso elenca nella sua lucida analisi sul negoziato con gli Usa, e che quindi non ha senso cercare soluzioni già bocciate dalla Storia ed è necessario terminare questo esperimento che dura ormai da troppo tempo senza produrre i risultati promessi?