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Tunisia

Chi ha ragione tra Bonomi e Conte?

L'analisi dell'editorialista Gianfranco Polillo sulla diversità di vedute tra Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, e gli esponenti del governo Conte sul tema sussidi e non solo

Per capire chi ha ragione o torto, nella polemica tra Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, e gli esponenti del governo Conte, bisogna ricorrere allo schema degli incontri di boxe. Dove, se non c’è Ko, decide l’arbitro, assegnando la vittoria ai punti. Attendere, infatti, per vedere come andrà a finire, potrebbe risultare fatale. Ed il suono dell’ultimo gong, per il paziente Italia, risultare ormai tardivo.

Gli arbitri di questa possibile contesa sono al di sopra di ogni sospetto. Sono giuristi come Sabino Cassese, che lo stesso presidente di Confindustria chiama a sostegno delle proprie tesi, quando critica la scomparsa del tema “semplificazione” dai radar della politica. Banchieri centrali, come Mario Draghi, che nel suo famoso intervento al meeting di Rimini aveva detto “ai giovani bisogna dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta ed il loro reddito futuro”.

Certo i toni sono diversi, ma la sostanza? Qual è la differenza tra chi denuncia (Bonomi) l’eccesso di “bonus a pioggia” e chi (Draghi) fa notare tutti i limiti di una politica di semplici sussidi? Contro il primo si é scatenata la reazione di molti esponenti governativi, punti sul vivo. Contro il secondo è stato dato mandato a Marco Travaglio di “buttarla in caciara”, come si dice a Roma, proprio per l’incapacità di replicare a quelle osservazioni. Pacate nei toni, ma taglienti come una lama. E poi c’è il tema del Mes, che ancora divide la maggioranza. Ma non è questo il punto. Un dibattito sconclusionato – pura ideologia – non è riuscito a vagliare “pro” e “contro”. Per poi giungere ad una decisione razionale.

Carlo Bonomi, ancora una volta, non ha perso occasione per denunciare “quel pregiudizio ideologico anti-industriale” ed “anti-impresa”, che pervade gran parte della politica italiana. È una sua fissazione? Un fantasma che agita le sue notti insonni? Come se le tesi sulla “decrescita felice”, di cui oggi nessuno parla più, non fossero mai state enunciate. E purtroppo, a causa della pandemia, anche materializzatesi: quasi una drammatica dimostrazione di un wishful thinking.

Nei documenti della Commissione europea – ecco un terzo arbitro – c’è una risposta. “La modesta crescita della produttività” – è indicato nel suo ultimo rapporto, nel contesto della procedura dell’Alarm mechanism (COM(2019) 651 final) – è dovuta anche “a un contesto non favorevole alle imprese”. Quindi il presidente di Confindustria non vede fantasmi. Chiunque osservi la situazione italiana con un minimo di oggettività, non può negare questa vistosa anomalia. Che poi è anche la possibile spiegazione dei probabili futuri insuccessi.

Fare previsioni per quel che sarà, è un’operazione forse più inutile che difficile. Finché non si avranno certezze sul decorso della pandemia, ogni valutazione economica di carattere prospettico deve essere messa da parte. Questo vale per l’Italia, come per qualsiasi altro Paese. Vi sarà tuttavia un motivo se, paragonando le varie situazioni, il verdetto nei confronti del nostro Paese risulti essere sempre quello più negativo?

L’ultimo in ordine di tempo è quello della stessa Commissione: Assessment of public debt sustainability and COVID-related financing needs of euro area Member States – in preparation of the assessment pursuant to Article 6 of Regulation (EU) No 472/2013 and Article 13(1) ESM Treaty. Nella prospettiva a dieci anni – il 2030 – il tasso di crescita dell’economia italiana è previsto essere, sempre (come lo era stato dal 2011 in poi) il più basso di tutta l’Eurozona ed il suo debito pubblico destinato a svettare ancora più in alto: superiore anche a quello della stessa Grecia, che, nel frattempo, grazie ad una diversa politica economica, lo avrà notevolmente ridotto.

Ed allora? Avrà ragione Carlo Bonomi a puntare i piedi e denunciare il tutto, prima dell’inevitabile, o il governo a replicare a brutto muso? L’unica cosa che non si può dire è: “Ai posteri l’ardua sentenza”. Sarebbe troppo tardi.

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