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Chi fa sbandare Autostrade?

Perché sono ingombranti i fondi Blackstone e Macquaire in una società come Autostrade per l'Italia (Aspi), controllata da una holding in cui la maggioranza è di Cdp del Mef. L'analisi di Giuseppe Liturri

Può una società come Autostrade per l’Italia (Aspi) contemporaneamente non aumentare i pedaggi, fare ingenti investimenti, distribuire tutto il flusso di cassa disponibile dopo gli investimenti e avere come ingombranti soci di minoranza due giganti tra i fondi di investimento, come Blackstone e Macquaire?

Ovviamente, no. Si tratta di un’impossibile quadratura del cerchio e la contraddizione, sempre più evidente con il passare del tempo, ora è diventata un macigno sul cammino della società guidata, almeno fino al prossimo aprile, dall’amministratore delegato Roberto Tomasi.

Avevamo in più occasioni, ottobre 2022 e giugno 2023, evidenziato la strutturale anomalia della compagine societaria messa in piedi dal governo Draghi nella primavera 2022 e le ancora più complesse regole di governo societario. Con alcune cosiddette «materie riservate» per le quali è richiesto in cda il voto di almeno uno dei due rappresentanti dei fondi (gli altri due sono espressione di Cdp) e dei patti parasociali che prevedono la distribuzione integrale del flusso di cassa residuo dopo gli investimenti, il cosiddetto «free cash flow».

In base a quanto ricostruito da Repubblica, fino al 2024, Tomasi è riuscito a tenere in equilibrio le esigenze di investimento con quelle di distribuzione del flusso di cassa residuo, investendo circa 5 miliardi e distribuendo 2,8 miliardi (inclusi quelli probabili del bilancio 2024). Ma ora il piano prevede per il quadriennio 2025-2029 ben 36 miliardi di investimenti, tra cui spiccano la Gronda di Genova e il Passante di Bologna, e il flusso di cassa a disposizione per i dividendi ai soci sarebbe nettamente inferiore rispetto a quello preventivato dai fondi. L’obiettivo di 8,5 miliardi di dividendi, prefissato dai due fondi per il periodo 2020-2029,sarebbe mancato di circa 1,6 miliardi.

Da qui «il braccio di ferro con notevoli tensioni» all’interno del management di Aspi e della controllante HRA Spa, nel cui azionariato ci sono Cdp al 51% e i due fondi al 49%.

I fondi hanno quindi proposto di ridurre gli investimenti a 21 miliardi, quindi Gronda e Passante dovrebbero restare al palo, una proroga della concessione di 4 anni e un aumento dei pedaggi limitato al 1,5%-1,8%. Se si volessero realizzare tutti gli investimenti e mantenere l’obiettivo di remunerazione dei fondi, i pedaggi dovrebbero aumentare di un improponibile 8,5%. Una coperta sempre troppo corta, da qualsiasi lato la si tiri e una gigantesca gatta da pelare per l’amministratore delegato di Cdp, Dario Scannapieco, che già nel 2023 aveva provato a convincere i fondi ad accettare una politica di distribuzione meno generosa. Proposta che non poteva che infrangersi sui piani finanziari dei fondi che – avendo finanziato a leva, cioè con debiti, l’investimento in Aspi e avendo promesso lauti ritorni ai propri azionisti – non possono rinunciare per alcun motivo a quei dividendi.

Sullo sfondo c’è anche la prossima scadenza del patto parasociale con i fondi a maggio 2025.

L’attuale stallo è il prevedibile esito di aver messo insieme «il diavolo e l’acquasanta», in quella che il governo Draghi, per bocca dell’allora direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, aveva prospettato come un’operazione «senza alcun esborso per lo Stato».

Come possono coesistere prospettive di investimento e redditività così diverse?

Cdp è controllata dal Mef e, sia pure a condizioni di mercato, deve operare nel superiore interesse di un azionista che ha anche il compito di dotare l’Italia di un’infrastruttura autostradale efficiente e capillare essenziale per la crescita del Paese, anche a scapito dei risultati economici di breve termine. Una rete che è unbene pubblico ed è anche un monopolio naturale (non possono esserci due autostrade in concorrenza!).

I fondi hanno esclusivamente l’obiettivo di ritorni a doppia cifra e pure in tempi brevi e non sanno nemmeno cosa sia l’interesse pubblico.

Un altro «capolavoro» del «governo dei Migliori» con cui nelle prossime settimane il governo Meloni dovrà rapidamente fare i conti.

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