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Swisscom Vodafone

Che cosa si dice in Svizzera dell’operazione Vodafone-Swisscom

Ecco perché in Svizzera non si fa il tifo per l'acquisizione di Vodafone Italia da parte di Swisscom. Fatti, numeri e approfondimenti.

Nella prassi quando due parti si impegnano a negoziare in via esclusiva, definendo preventivamente prezzo, pagamento e perimetro del complesso aziendale oggetto della trattativa, salvo sorprese il negoziato si conclude positivamente. Quindi è normale che subito dopo l’annuncio dell’accordo di principio tra Swisscom e la britannica Vodafone Group Plc per l’acquisizione di Vodafone Italia, i commenti e le prese di posizione non si siano fatti attendere (come Start Magazine ha riferito nell’edizione di martedì 5 marzo), benché ci voglia ancora tempo per il perfezionamento di un contratto.

Non solo diversi esponenti politici ma anche gli esperti interpellati da grandi giornali di respiro internazionale, come Le Temps e la Neue Zürcher Zeitung, formulano riserve sulla decisione di Swisscom di negoziare in via esclusiva l’acquisto della filiale italiana di Vodafone (anche perché il gestore telefonico elvetico è controllato, con più del 50% del capitale, dalla Confederazione). Le Temps riporta le opinioni di analisti finanziari appartenenti a due tra le principali banche svizzere, Roberto Cominotto di Julius Bär e Mark Diethelm di Vontobel. Il primo, dopo avere ricordato che l’acquisizione dell’italiana Fastweb da parte di Swisscom è stata coronata da successo, afferma che l’operazione è un potenziale fattore di crescita, ma aggiunge alcuni significativi “se”: se Swisscom riuscirà a raddrizzare la gestione di Vodafone Italia, se la forte intensità della concorrenza nel mercato italiano delle telecom si attenuerà; diversamente, avverte Cominotto, l’esito potrebbe rivelarsi negativo per Swisscom; Diethelm ritiene “improbabile” che l’aspettativa di “un impatto sulla politica dei dividendi” di Swisscom si realizzi nel breve periodo, considerato il carico debitorio che l’operazione comporta e lo sforzo richiesto per l’integrazione con Fastweb (le “sinergie” con Fastweb rappresentano il principale puntello “strategico” nell’eventuale acquisizione di Vodafone Italia). Diciamo che la temperatura di queste analisi non è fredda, ma nemmeno entusiasta, semmai tiepida.

Quanto alla NZZ, la redattrice di economia Nelly Keusch, in un’analisi firmata nei giorni scorsi prende la questione da un altro punto di vista, reso esplicito fin dal titolo: “É ora che Swisscom venga privatizzata”. Keusch dà atto che l’idea di acquisire Vodafone Italia (che possiede una propria rete) per integrarla con Fastweb ha un senso, dal punto di vista imprenditoriale. Ciò detto allinea una serie di motivati “però” che iniziano con una domanda: “Swisscom è un’impresa controllata dallo stato o un’impresa privata?” e prosegue rilevando che negli ultimi tempi si comporta piuttosto come un’impresa privata. Da azienda di stato incaricata dell’erogazione di un servizio di base si è trasformata in un “emporio”: dal software al cinema fino alla diffusione delle partite di calcio.  Non solo: mentre si accinge a investire nelle infrastrutture in Italia, mezzo milione di collegamenti su fibra in Svizzera sono bloccati da una controversia tra Swisscom (che sfrutta la sua forza nel mercato elvetico per “frenare la concorrenza”) e la Commissione per la concorrenza. E quanto agli investimenti all’estero, se l’acquisizione di Fastweb, dopo alcuni anni di perdite, si è dimostrata un successo, in tanti altri casi non è andata così: “le passate avventure all’estero si sono spesso concluse con batoste”. L’elenco comprende una partecipazione nella tedesca Debitel e investimenti in Ungheria, India e Malaysia, oltre a piani di sviluppo falliti in Austria e nella repubblica Ceca. Tutta questa distruzione di risorse è stata resa possibile dalla condizione di “partecipazione statale” e dal conseguente predominio e sovraprofitti di Swisscom nel mercato elvetico: Keusch non lo scrive così brutalmente, ma basta fare due più due per arrivare alla conclusione.

Fin qui si tratta di riserve sul profilo imprenditoriale e istituzionale di un’operazione finanziaria. Ma l’accoglienza freddina di un’operazione che sulla carta dovrebbe vellicare l’orgoglio nazionale rivela potenzialmente un disagio più profondo. È ovviamente solo una coincidenza, ma negli stessi giorni in cui veniva annunciata la “trattativa esclusiva” di Swisscom col gruppo Vodafone si svolgeva in Svizzera, il 3 marzo, nel referendum sulla proposta per l’introduzione della tredicesima mensilità di pensione, promosso dai sindacati e osteggiato sia dal Consiglio federale che dalle organizzazioni imprenditoriali e più in generale dai partiti “borghesi” del centro e della destra, il 58,24 % dei votanti e 16 cantoni su 26 hanno votato a favore. Un risultato inatteso e da un certo punto di vista paradossale, posto che le ultime elezioni federali di non molti mesi fa avevano registrato un avanzamento del centro e della destra.

Ma il paradosso è apparente. Se la proposta di aggiungere una tredicesima mensilità alla pensione degli svizzeri è passata anche col voto di numerosi elettori dei partiti del centro e della destra non è solo perché l’establishment aveva evidentemente sottovalutato l’iniziativa, ma anche perché sotto la superficie di un consenso generalizzato, dovuta anche ai toni civili del confronto politico in Svizzera, sta maturando un’insofferenza nei confronti dell’élite locale, che nella Confederazione ha tra le principali componenti (forse la principale in assoluto) i vertici delle grandi imprese multinazionali e, naturalmente, anche il governo federale. A commento del risultato del referendum del 3 marzo, il presidente dei “Giovani liberali” – pur contrari alla proposta – ha dichiarato: “Molti borghesi hanno votato per protesta a favore della tredicesima pensione”, e spiega che il fenomeno sottintende una duplice critica all’establishment elvetico: alla politica di Berna “che per tutto il resto i soldi li trova” e ai “manager che si servono a loro discrezione, senza doverne rispondere”.

Si sente l’inconfondibile eco dei commenti che avevano fatto seguito all’imbarazzante “sepoltura” di Credit Suisse del 19 marzo 2023, apparentemente sopiti quasi un anno dopo. Ma conviene fare i conti con due aspetti: la effettività della democrazia diretta elvetica, un unicum a livello mondiale, e il curioso fenomeno per cui nei paesi pacifici, ordinati e costruiti intorno al consenso, la gente è più abituata a ragionare con la propria testa di quanto non lo sia nei paesi costruiti intorno a ininterrotte contrapposizioni appariscenti e rumorose. E ha la memoria dura.

Forse i commenti e le analisi, non precisamente entusiastici, che hanno accolto la notizia di un’operazione che vale, in termini di impegno finanziario, poco meno di un terzo dell’intera capitalizzazione di borsa di Swisscom, riflettono anche l’eco della fine del Credit Suisse, che si può decodificare in questi termini: se i manager vogliono scommettere otto miliardi di chf su un’operazione lo facciano pure, ma senza rischiare il denaro dei contribuenti, che oggi sono gli azionisti di maggioranza assoluta di Swisscom. O, più brevemente: “abbiamo già dato”.

 

 

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