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Che cosa manca nel Pnrr di Conte e Gualtieri secondo Bruxelles

Tutte le mancanze del Pnrr predisposto da Conte e Gualtieri secondo le indicazioni della Commissione Ue. Ecco che cosa emerge da un report del servizio studi del Senato

 

“Riforme e investimenti” è un sempreverde “bastone e carote”. Mario Draghi lo sa bene e non ne ha fatto mistero, trattando i due capitoli in maniera ben distinta in occasione della presentazione delle linee programmatiche del nuovo governo in Parlamento.

E riforme e investimenti camminano di pari passo nell’assetto di Next Generation EU, il Recovery Plan senza precedenti per dimensioni e natura che vede l’Italia come primo beneficiario per l’entità dei finanziamenti, tra sovvenzioni e prestiti fra 2021 e 2023 (209 miliardi di euro). Ma gli investimenti saranno sbloccati (e, soprattutto, non saranno congelati in seguito) solo se vi corrisponderanno anche le serie macro-riforme previste.

Il parametro sono le Country Specific Recommendations del 2019 e del 2020, cioè le raccomandazioni rivolte agli Stati membri nell’ambito del semestre europeo di coordinamento delle politiche macroeconomiche dei Paesi Ue.

A mettere all’indice alcune lacune del documento predisposto dal precedente governo il 12 gennaio — quando la crisi era ormai conclamata — e trasmesso alle Camere il successivo 15 gennaio, è il servizio Studi del Senato, che ha individuato le carenze in relazione ai desiderata delle raccomandazioni del semestre europeo, bollinandole con un poco clemente “NR”: non rilevato.

Si va dalla riduzione del rapporto debito pubblico/Pil fino alla piena attuazione delle precedenti riforme pensionistiche, passando per la ristrutturazione dei debiti delle banche, tutti riferimenti che sfuggono nel testo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Bene gli interventi sulla pubblica istruzione, dall’infanzia alla formazione postuniversitaria — si legge nella ricognizione sinottica del servizio studi del Senato —, ma si fa notare la perdurante assenza della predisposizione di una nuova legge annuale sulla concorrenza che affronti le restrizioni presenti sul mercato, in particolare per il commercio al dettaglio e i servizi alle imprese.

Tasto dolente, la giustizia. Il Pnrr dello scorso governo elenca già una serie di misure — il completamento della digitalizzazione del processo civile e di quello penale; lo smaltimento del contenzioso tributario pendente in Cassazione —, ma non fa mistero, prudentemente, di non considerare l’elenco esaustivo, si richiama alle riforme di processo civile e penale pendenti nelle commissioni parlamentari di Camera e Senato e, anzi, apre all’eventuale adozione di nuovi provvedimenti, se del caso con lo strumento del decreto legge (un espediente che andrà visto quanto sarà in linea con l’agenda Draghi, chiaro nel porre la vasta maggioranza parlamentare di fronte alle sue responsabilità).

Altri tempi, quelli in cui sul nodo della giustizia un governo capiva di essere al capolinea. Adesso, un restyling del capitolo giustizia nel Pnrr è tutto nelle mani e nella volontà della ministra Marta Cartabia, nuova inquilina di via Arenula.

Ma non ci sono solo riforme su cui il testo del governo Conte prende tempo. Nella bozza di gennaio mancano anche degli ancoraggi solidi e molto cari alla Commissione europea di Ursula von der Leyen, riferimenti irrinunciabili che arrivano direttamente dal testo del regolamento europeo sul Dispositivo di ripresa e resilienza (RRF, nell’acronimo inglese). Un’assenza che si trasforma nella prima grana per il nuovo ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, chiamato al fronte nella predisposizione del Pnrr versione Draghi. Lo schema del Senato fa infatti notare che il piano del precedente esecutivo non fornisce indicazioni “in merito alle risorse finalizzate a garantire il raggiungimento dell’obiettivo minimo di spesa definito a livello europeo per la transizione verde”. Parliamo del target del 37% di fondi del Recovery Plan che in ogni Paese membro devono essere impiegati per la green transition. Per l’Italia, una cifra di oltre 77 miliardi di euro.

Adesso la palla è nel campo del nuovo governo che, pur mantenendone l’impianto complessivo organizzato attorno alle Missioni che caratterizzano Next Generation EU, potrà far tesoro dei rilievi del servizio studi – uno stile di lavoro senz’altro familiare per il neopremier – nella discussione sul maquillage del piano italiano di ripresa e resilienza.

Gli Stati membri hanno tempo fino al 30 aprile per presentare le loro bozze alla Commissione europea, con cui è tuttavia già in corso un dialogo, presieduto dalla task force dedicata istituita in seno al segretariato generale di Bruxelles. La Commissione avrà poi 8 settimane per la valutazione del piano.

L’ottenimento della prima tranche di pagamenti anticipati – pari al 13% del totale – sembra pacifico e si basa sulle promesse contenute nel Piano nazionale; i mal di pancia potrebbero arrivare presto, però, di fronte alle successive difficoltà nell’implementazione delle Country Specific Recommendations  rivolte all’Italia e spingersi fino al congelamento temporaneo dei fondi spettanti al nostro Paese (il 70% dei quali sono da spendere tra 2021 e 2022). Secondo lo speciale freno d’emergenza voluto, infatti, come garanzia dai Paesi cosiddetti frugali in estate, quando lo strumento ha visto la luce, in caso di dubbio, ciascuno Stato membro ha 4 settimane per bloccare la decisione di erogare i fondi di Next Generation EU, deferendo la questione al Consiglio europeo, il vertice politico dell’Ue dove siedono premier e presidenti.

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