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Che cosa cela il braccino corto del Tesoro nelle aste dei titoli di Stato

L'analisi di Giuseppe Liturri sull’andamento delle emissioni dei titoli di Stato

 

Cash is king”. Questa frase, che non richiede traduzione, è utilizzata nel mondo degli affari per affermare che ciò che conta sono i flussi di cassa. Il resto sono chiacchiere.

E, purtroppo per l’Italia, il confronto con le altre maggiori economie della Ue, basato sui dati al 30 giugno, rivela che il ministro Roberto Gualtieri continua ad avere il braccino corto nel mettere mano al portafoglio. La misura oggettiva ed incontestabile per capire quanto il governo stia spendendo per mitigare l’impatto della crisi da Covid 19 la fornisce l’andamento delle emissioni lorde e nette (quelle dopo aver rimborsato i titoli giunti a scadenza) dei titoli di Stato. Ed i dati di giugno e del secondo trimestre sono impietosi, sia in assoluto sia relativamente agli altri Paesi.

Ma la responsabilità non va ascritta al ministro, ma a tutto il governo del Presidente Giuseppe Conte. Infatti il Tesoro emette titoli se e solo se ci sono fabbisogni da finanziare, non certo per tenere il denaro parcheggiato nel conto disponibilità presso la Banca d’Italia. Quindi se il Tesoro non si approvvigiona di denaro emettendo titoli, significa che le misure per il rilancio del Paese sono modeste in sé e non stanno “tirando” a sufficienza. Di conseguenza, arriva poca liquidità ad imprese e lavoratori. In parole povere, gli italiani continuano a versare troppe tasse e lo Stato continua a non incrementare significativamente la spesa pubblica.

Il maggior deficit varato dal governo con i decreti di primavera è pari a 75 (20+55) miliardi per il 2020 che, in termini di saldo netto da finanziare significa ben 180 miliardi (25+155). Presto se ne aggiungeranno rispettivamente 25 e 32, sempre per il 2020.

Tutta questa annunciata potenza di fuoco ha però fatto sì che, nel secondo trimestre, le emissioni nette di titoli italiani siano stati pari a 101 miliardi, dei quali, però ben 31 sono finiti a rimpolpare il conto disponibilità che a fine marzo era sceso pericolosamente a 29 miliardi, ed è tornato a 60 a giugno. Quindi solo 70 miliardi netti in 3 mesi utilizzati per finanziare l’economia boccheggiante. Quasi quanto la Spagna, che ha un debito pubblico e livello del PIL nettamente inferiori all’Italia, e molto meno di Francia e Germania, attestate rispettivamente a 174 e 119 miliardi. Osservando le emissioni lorde, come piace a Gualtieri, il risultato non cambia. Il dettaglio del solo mese di giugno fornisce un quadro ancora più preoccupante. Emissioni nette italiane pari a 21 miliardi, con Spagna, Francia e Germania attestate rispettivamente a 68, 61 e 34 miliardi.

Interessante è anche il confronto con il 2019, per comprendere la diversa intensità della spinta messa in atto da ciascun Paese. Rispetto a giugno 2019, le emissioni nette dell’Italia restano stabili ed aumentano di 78 miliardi nel confronto trimestrale. Ben poca cosa rispetto agli incrementi registrati da Spagna, Francia e Germania (62, 44 e 45 miliardi rispettivamente). L’Italia procede col passo della tartaruga anche osservando l’incremento delle emissioni nell’intero secondo trimestre.

Ma vi è di più. In questi mesi il mercato dei titoli di Stato è stato dominato dalla Bce che ha eseguito acquisti netti di nostri titoli per circa 75 miliardi, quindi solo 26 miliardi sono stati assorbiti da banche, famiglie ed investitori esteri. La buona notizia è che quei 75 miliardi, finché saranno rinnovati (almeno fino a dicembre 2022) non produrranno costi per lo Stato, in quanto i relativi interessi torneranno nelle casse statali sotto forma di dividendi di Bankitalia. La cattiva notizia è che un mercato così affamato di rendimenti è stato tenuto quasi a stecchetto, e non si è approfittato della copertura della Bce per mettere fieno in cascina in vista di un autunno che si preannuncia difficile.

Di fronte all’ordine di grandezza di questi numeri, stupisce che il Mef ritenga opportuno emettere un comunicato per salutare con favore il finanziamento di 2 (due!) miliardi erogato dalla Bei per l’emergenza sanitaria. Roba da Paese sull’orlo del collasso finanziario che però ci dà la misura della difficoltà in cui è Gualtieri. Infatti, ricordiamo che Bei, Mes ed altri strumenti, finanziano un fabbisogno già preesistente, sostituendo l’emissione di titoli o, in alternativa, il Tesoro per giustificare l’accesso a tali strumenti di finanziamento deve avere deficit aggiuntivo da finanziare.

In altre parole, a legislazione vigente, il ricorso al Mes si risolverebbe in un buco nell’acqua, in quanto andrebbe a finanziare necessariamente spese già stanziate, nelle quali però non ci sono i progetti faraonici di potenziamento della sanità di cui si favoleggia in questi giorni. Per utilizzare il Mes per questi progetti, si deve prima richiedere un ulteriore (e sarebbe il quarto) scostamento del deficit e poi indicare come forma di finanziamento il Mes o suoi equivalenti. Nei deficit già stanziati c’è ben poca cosa finanziabile dal Mes. Accadrà la stessa cosa anche col Recovery Fund nel 2021. Banalizzando, se qualcuno di noi potesse accedere ad un finanziamento per il rifacimento degli infissi della propria abitazione, delle due, l’una: o ha già quella spesa nel proprio budget familiare e quindi sfrutta lo strumento, o programma una spesa aggiuntiva per quelle opere.

Gualtieri ha tenuto stretti i cordoni della borsa probabilmente perché contava, sin da marzo, di chiedere il Mes “full optional”. Ora invece si ritrova il Paese affamato di liquidità ed il Mes che, per essere utilizzato in modo significativo, richiede nuovo deficit.

(articolo pubblicato dal quotidiano La Verità)

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