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TRENTIN

Bruno Trentin, la sinistra e il salario minimo

Il 23 agosto del 2007 moriva a Roma Bruno Trentin. Il ricordo di Giuliano Cazzola

 

Il 23 agosto del 2007 moriva a Roma Bruno Trentin. Mentre mi accingevo a scrivere queste righe mi sono nuovamente sorpreso a pensare che vicende, storie, esperienze appartenute ad una vita ormai lunga come la mia, siano in fondo un patrimonio comune a cui è sufficiente fare riferimento per intendersi nella comunità di cui si è parte. Per me Trentin è una persona che appartiene alla storia di questo Paese smemorato: una persona di cui non possono essere ignorate le qualità, le doti di leader, le azioni svolte nell’interesse dei lavoratori, per la causa del sindacato e della democrazia.

Poi penso che nel 2026 qualcuno – spero la Cgil – ne celebrerà il centenario della nascita. E mi rendo conto di quanto tempo sia passato dagli anni in cui il movimento sindacale, la sinistra, il Paese potevano contare su personalità del valore di Bruno Trentin e di tanti altri di quella caratura (che io ho avuto l’onore di conoscere).

Trentin era un gigante in un mondo di giganti, di sindacalisti e di politici formatisi attraverso dure esperienze di vita e di lavoro, di studio, di riflessione innanzitutto culturale oltre che pratica. Ed è questo aspetto della vita di Bruno che intendo mettere al centro di un commiato che è insieme rimpianto ed orgoglio per averlo conosciuto, insieme ai tanti che – come dice il poeta – “mi corrispondevano” e che non sono più tra noi.

Nato in Francia nel 1926, a Pavie in Guascogna dove il padre Silvio, uno dei pochi docenti universitari che rifiutarono di giurare al fascismo,  si era rifugiato ed aveva aperto una libreria che divenne punto di incontro di esuli antifascisti, Trentin partecipò giovanissimo alla Resistenza, poi dopo essersi laureato in giurisprudenza a Padova ed aver compito un percorso di studi  negli Usa iniziò, partendo dall’ufficio studi della Cgil quel percorso che lo iscrisse nella storia del sindacalismo italiano. Collettiva, il giornale on line della Cgil ha voluto ricordare Bruno pubblicando una sua autopresentazione che resta la migliore testimonianza del suo profilo intellettuale ed umano.

Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto giovane, nella classe lavoratrice una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare a un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa.

Non riesco ad immaginare come Bruno Trentin potrebbe spiegare oggi la profonda trasformazione che ha interessato le classi lavoratori (anche gli iscritti al suo sindacato) e divenire elettori dei partiti della destra populista. Sono convinto, però, che le sue analisi sarebbero più convincenti ed approfondite di quelle correnti che attribuiscono questo nuovo indirizzo politico ai c.d. errori della sinistra, che avrebbe smesso di ‘’fare la sinistra’’. È questa una teoria che – penso – Trentin non avrebbe condiviso proprio per il suo carattere offensivo di quella classe lavoratrici in cui aveva posto le sue speranze. Ed anche per l’idea che aveva per il ruolo di protagonismo che la sinistra avrebbe dovuto svolgere nel cambiamento della società.

Oggi – nella ricorrenza della sua scomparsa – vorrei rendere testimonianza del pensiero di Bruno per quanto riguarda un tema alla ribalta del dibattito politico e dell’autunno sindacale: il salario minimo orario stabilito per legge. Non ho intenzione di strumentalizzare le opinioni di Trentin – che da allora potrebbero essere cambiate se fosse ancora in vita – a sostegno di una determinata tesi. Mi basta citare un brano di Riccardo Del Punta – un giurista scomparso prematuramente – in cui viene sintetizzato l’approccio del grande leader sindacale alla questione di cui si parla.

‘’Così, convinto com’è della perdurante centralità del lavoro nella vita di ciascuno e nel tessuto sociale (ma è un lavoro che resta comunque mezzo a fine, e non fine in sé, giacché centrale – come vedremo – è la persona), Trentin se la prende con le superficiali profezie sulla fine del lavoro di moda in quel periodo (su tutte, quella di Jeremy Rifkin) nonché con misure di welfare, come il reddito minimo garantito, che prescindano dal lavoro o da una partecipazione assidua a programmi di formazione e riqualificazione professionale erogati dal servizio pubblico’’.

Poi posso ricordare una mia esperienza diretta. Nel Congresso della Cgil del 1991, Antonio Lettieri ed io inserimmo nelle tesi un emendamento in cui era contenuta la proposta del salario minimo, contornata da tutte le possibili salvaguardie della contrattazione collettiva da ogni effetto sostitutivo (proprio su questa preoccupazione – che prendeva spunto da esperienze internazionali – si basava la contrarietà di Trentin a quell’opzione). A Rimini, nei giorni del Congresso nazionale venne il momento di mettere in votazione quell’emendamento che in verità nei congressi territoriali e di categoria non aveva ottenuto un particolare successo. E che quindi sarebbe stato bocciato anche in quella sede. Trentin in persona venne da noi e ci chiese – come favore personale – di ritirarlo. Ovviamente fu ciò che facemmo, sia pure conservando l’impressione che il nostro amato leader esagerasse. Ho impiegato del tempo, ma oggi ho capito che Bruno aveva ragione. E mi stupisco della leggerezza con cui gli attuali dirigenti della Cgil si sono avventurati lungo questo percorso senza rendersi conto delle tante possibili insidie.

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