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Assicurazioni Generali, Unicredit, Intesa Sanpaolo-Ubi e non solo. Ecco la relazione del Copasir

Il testo integrale della relazione del Copasir su Assicurazioni Generali, Unicredit, Intesa Sanpaolo-Ubi e non solo.

 

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA

XVIII LEGISLATURA

Doc. XXXIV

n. 3

COMITATO PARLAMENTARE

PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA (istituito con la legge 3 agosto 2007, n. 124)

(composto dai deputati: Raffaele Volpi, Presidente, Dieni, Segretaria, Enrico Borghi, Vito e Zennaro; e dai senatori: Urso, Vicepresidente, Arrigoni, Castiello, Fazzone e Magorno)

RELAZIONE

sulla tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo (Relatori: deputato Enrico BORGHI e senatore Francesco CASTIELLO)

Approvata nella seduta del 5 novembre 2020

Trasmessa alle Presidenze il 5 novembre 2020

 

Finalità dell’indagine ed elenco delle audizioni

Fin dall’inizio della attuale legislatura, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha individuato alcuni temi di specifico interesse meritevoli di essere approfonditi, parallelamente alle funzioni di controllo sulle attività del Comparto intelligence. In particolare, si è ritenuto di proseguire e ampliare il lavoro avviato nella precedente legislatura sugli sviluppi delle tecnologie informatiche e i rischi connessi alle reti 5G, da cui è scaturita la relazione trasmessa al Parlamento il 12 dicembre 2019, e di avviare successivamente un’attività di monitoraggio e verifica della tutela degli interessi nazionali in alcuni settori strategici per il Paese: banche e assicurazioni, energia, difesa.

Quanto al settore bancario e assicurativo, le influenze e gli interessi che grandi imprese ed altri soggetti possono proiettare sulle dinamiche economico-finanziarie interne rappresentano un fattore potenzialmente rischioso non solo in relazione a ricadute sul versante sociale, industriale e occupazionale, ma anche con riferimento alle possibili minacce agli interessi nazionali.

L’attenzione del Copasir si è concentrata proprio sui complessi equilibri geopolitici che si stanno delineando in una fase di crisi oggettiva dei processi di globalizzazione, influenzata anche della crisi pandemica Covid-19, che dovrebbero imporre a Governo e istituzioni un innalzamento dei livelli di attenzione e verifica sulle ingerenze di soggetti esteri nei riguardi di comparti e imprese nazionali, laddove esse siano dettate non da motivazioni strettamente economiche ma anche (o solo) da strategie di politica industriale, in molti casi riconducibili, più o meno indirettamente, a Stati sovrani.

Tali considerazioni non vanno naturalmente intese quali tentativi di mettere in discussione le regole dell’economia di mercato, terreno sul quale del resto il Comitato non avrebbe competenze per inter venire, ma afferiscono piuttosto all’esigenza di perseguire un efficace equilibrio fra il rispetto di tali regole, da un lato, e la protezione dei primari interessi del Paese, dall’altro.

Gli eventi connessi all’emergenza sanitaria per il Covid-19, che ha coinvolto quasi tutti i Paesi, colpendo anche l’Italia, si sono verificati proprio nella fase iniziale del ciclo di audizioni, deliberato l’8 gennaio 2020. Le conseguenze di tale evento sul quadro economico globale sono pesanti e presumibilmente continueranno a condizionarlo ancora per diversi mesi. Nello specifico, si può temere un deprezzamento dei valori di aziende quotate in Borsa che potrebbe favorire iniziative e tentativi di ‘scalate’, anche da parte di soggetti esteri.

Queste circostanze, del tutto imprevedibili, hanno aggravato per il nostro Paese una situazione economica che già presentava elementi di forte criticità, rafforzando le ragioni che il Comitato aveva posto alla base della propria iniziativa.

Il Comitato ha ritenuto di avviare l’attività di approfondimento sul settore bancario e assicurativo, riservando all’ultima parte del 2020 e al 2021 quella relativa a energia e difesa, al settore logistico, a quello aerospaziale, nonché alla influenza in organismi internazionali pre ordinati alla definizione degli standard ISO e ai connessi profili di ricaduta economica.

Già in questa sede, tuttavia, il Comitato ritiene di mettere in rilievo come il sistema economico nazionale sia stato oggetto di iniziative di acquisizione da parte di soggetti esteri, alcuni dei quali aventi legami più o meno indiretti con strutture statuali non facenti parte del sistema di alleanze euroatlantico. (Si rimanda, per questi aspetti, agli « addendum »1e2 alla presente relazione).

Circa la scelta dei soggetti da ascoltare, il Comitato ha voluto dare spazio tanto agli organi di controllo (Consob, Banca d’Italia, IVASS), quanto alle aziende principali dei settori interessati (Mediobanca, UBI, UniCredit, Intesa Sanpaolo, Assicurazioni Generali, UnipolSai, Banco BPM, Monte dei Paschi di Siena), nonché a quelle società che si collocano in una posizione peculiare, quali Cassa Depositi e Prestiti e Borsa Italiana: la prima, in quanto istituzione controllata dallo Stato, che raccoglie il risparmio postale nazionale, la seconda che, pur interamente a capitale privato, gestisce direttamente il mercato finanziario italiano.

Il ciclo di audizioni si è concluso con il Ministro dell’economia e delle finanze, ascoltato sia nella qualità di componente del CISR, sia in quella di titolare del dicastero più direttamente coinvolto nella gestione delle scelte strategiche che riguardano gli asset economici, bancari e assicurativi più rilevanti del nostro Paese.

Infine, sono state auditi i direttori dell’AISE e dell’AISI, i cui Reparti di intelligence economico-finanziaria hanno sviluppato negli ultimi anni un sensibile rafforzamento sia nella qualità delle risorse disponibili, sia nella articolazione e profondità della raccolta di informazioni su questi temi. Ciò a confermare la crescente attenzione degli organismi di intelligence verso le esigenze di sicurezza economica e finanziaria.

1. Principali caratteristiche del sistema bancario e assicurativo in Italia 

Il sistema bancario nazionale si è andato progressivamente concentrando, con la riduzione, attraverso fusioni e incorporazioni, del numero complessivo degli istituti. Al primo semestre del 2020, sono 12 i gruppi bancari « significativi », compresi quelli cooperativi, che hanno quindi un attivo superiore a 30 miliardi di euro e sono formalmente vigilati dalla BCE, ferme restando le ulteriori compe tenze della stessa Banca Centrale in materia di vigilanza e indirizzo su tutti gli istituti bancari.

Tra questi gruppi emergono, quali istituti principali, in primo luogo Intesa Sanpaolo e, con una minore consistenza, UniCredit, che vantano il 46 per cento dell’attivo totale, mentre altre 128 banche ne detengono il 10 per cento e 13 banche appartenenti a gruppi esteri hanno circa il 7 per cento dell’attivo. Sono presenti inoltre 81 filiali di banche estere, con un altro 7 per cento: la presenza straniera è pari a circa il 14 per cento dell’attivo complessivo.

Il Comitato ha ritenuto di valutare i rischi di penetrazione di soggetti esteri in considerazione delle caratteristiche del tessuto finanziario nazionale. In particolare vi sono tre ordini di motivi che rendono le società italiane target privilegiato per « aggressori » stranieri.

Il primo è l’ampia parcellizzazione del tessuto produttivo (molte piccole e medie imprese). Il secondo è l’alta specializzazione industriale, che rende molto appetibili le nostre imprese da parte di gruppi di più rilevanti dimensioni. Il terzo riguarda la dipendenza delle imprese dal settore bancario: il tessuto industriale del Paese è infatti molto dipendente dal credito bancario, essendo meno sviluppate forme alternative di finanziamento, quali la quotazione in Borsa, l’emissione di obbligazioni corporate o il private equity. Le imprese sono quindi alla ricerca di forme alternative di liquidità, tra cui anche l’ingresso nel proprio capitale di fondi stranieri.

In questo senso, va rilevato che il sistema bancario dovrebbe tendenzialmente sostenere il sistema economico e facilitare le politiche di accesso al credito adottate dal Governo, con le misure assunte a seguito della emergenza sanitaria, perseguendo l’interesse nazionale. Dal ciclo di audizioni, è emerso invece che non tutti i principali istituti bancari sono coerenti con questa impostazione, ritenendo invece preferibile una diversa strategia, prioritariamente rivolta verso i mercati esteri.

È da considerare, inoltre, che le banche italiane detengono un ingente quantitativo di titoli di Stato nazionali. Attualmente circa il 27 per cento del debito governativo italiano è detenuto dalle banche nazionali. Per fare un raffronto, la percentuale della Spagna è il 22. Il caso italiano è quello con il valore più elevato rispetto alla media dell’Eurozona, dove il valore si assesta al 16 per cento e di quella dei Paesi OCSE dove la media è il 19 per cento.

Questi elementi vanno posti in relazione con quanto sta avvenendo sul piano globale, ovvero il crollo dei tassi di interesse e le politiche espansive delle banche centrali (in Italia, alla data di gennaio 2020, il 16,57 per cento del debito pubblico statale era detenuto direttamente dalla Banca d’Italia, a cui si aggiunge il 25,5 per cento del settore privato nazionale non finanziario, il 6,88 per cento di istituzioni estere, il 6,80 per cento di banche estere ed il 16,80 per cento del settore privato estero non finanziario).

Per queste ragioni, specie in un momento di crisi come quello attuale, appare rilevante poter contare sulla presenza di soggetti a proprietà italiana nel sistema bancario. Questa circostanza presenta infatti tre benefici: la prossimità al sistema produttivo, la possibilità di acquisire titoli di Stato – anche in considerazione dell’elevato debito pubblico italiano, destinato ad aumentare per fronteggiare la crisi economica conseguente all’emergenza sanitaria Covid 19 – e infine l’importanza di avere grandi centri direzionali, con governance e sede in Italia, strategici per il Paese.

Analoghe considerazioni valgono per il settore assicurativo, principale investitore istituzionale nei titoli pubblici e privati, con circa 850 miliardi.

Da ultimo, è importante segnalare il notevole e crescente impegno degli istituti bancari e assicurativi nazionali, anche in termini di risorse economiche, a predisporre misure di sicurezza cibernetica, per fronteggiare i frequenti e massicsi attacchi che provengono non solo da hacker e criminali informatici, ma anche da altri attori che operano secondo strategie commerciali e politiche.

2. Aspetti dei sistemi bancari nel contesto europeo, con particolare riferimento a Germania e Francia 

Il contesto economico e finanziario nel quale operano le aziende italiane non può essere analizzato a prescindere dai nuovi assetti regolamentari che prendono forma in seno alla UE, e che incidono direttamente sulle attività degli operatori del settore.

Ad esempio, le funzioni della BCE sono state fortemente potenziate specie nei confronti delle banche « significative » – quelle con un attivo superiore a 30 miliardi di euro, o che rappresentino almeno il 20 per cento del PIL del loro Paese – che sono attualmente, nella zona euro, circa 120, e rappresentano l’85 per cento degli attivi bancari totali. Alle banche centrali nazionali restano solo compiti di supervisione sugli intermediari di minori dimensioni e in stretta e continuativa collaborazione con la BCE.

Occorre ricordare che la vigilanza sulle banche italiane è esercitata nel quadro del Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU), piena mente operativo dal 2014, che attribuisce alla BCE compiti specifici in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi e istituisce l’Autorità Europea di Vigilanza (EBA).

Inoltre, appare sempre più evidente una contrapposizione fra gli Stati « core » (Germania, Francia e Paesi nordici) e gli Stati periferici sulle questioni relative alla condivisione dei rischi finanziari legati alla instabilità del mercato comune e /o di un singolo Paese.

In particolare, vanno soprattutto rilevate le iniziative comuni assunte dalla Francia e dalla Germania (fra le quali è stato tra l’altro concluso nel gennaio del 2019 il Trattato di Aquisgrana) che, avvalendosi anche della consolidata esperienza e della capillare presenza dei propri rappresentanti a tutti i livelli delle istituzioni europee, riescono ad esprimere una significativa capacità di controllo e influenza sui processi decisionali che ad esse competono, e conseguentemente a meglio tutelare i rispettivi interessi nazionali nei diversi tavoli negoziali.

Quanto al sistema tedesco, esso risulta caratterizzato da una notevole frammentazione degli istituti di credito: circa 1.800 su 4.500 presenti nell’area Euro; solo per fare un confronto, l’Italia ne conta 500, la Francia 400, la Spagna solo 200.

Gli istituti tedeschi sono articolati in tre grandi gruppi: il primo è costituito da associazioni di banche private (circa 280 istituti, di cui 86 esteri); il secondo gruppo sono le Casse pubbliche di risparmio (circa 540); il terzo gruppo è formato dalle banche di credito cooperativo (circa 900 istituti).

Tra le banche « significative » (con capitale sopra i 30 miliardi di euro) vi sono le Landesbanken che fanno parte delle Casse di risparmio, la Deutsche Bank e la Commerzbank; queste ultime costituiscono i due principali gruppi bancari del Paese.

Una delle principali criticità del sistema bancario tedesco, sotto lineata nel corso delle audizioni, è rappresentata dalla notevole detenzione di titoli derivati, molti dei quali ad alto rischio, in particolare da parte di Deutsche Bank, il primo istituto del Paese. Secondo i dati del 2017, la banca avrebbe derivati per un valore complessivo stimato in quasi 50mila miliardi di euro. Per fronteggiare tale situazione, e più in generale la pesante crisi che sta attraversando, Deutsche Bank ha annunciato nel 2019 un piano di ristrutturazione che prevede, tra l’altro, una diminuzione del 20 per cento dei valori degli attivi e dei derivati e un taglio di circa 18 mila posti di lavoro.

Con riguardo al sistema francese, gli istituti bancari sono 400, meno di un quarto di quelli presenti in Germania, risultati a seguito di un processo di accorpamento ancor più accentuato di quello che ha caratterizzato lo scenario italiano.

Le due banche leader sono BNP Paribas e Crédit Agricole (entrambe con un fatturato superiore a quello di Intesa e UniCredit). L’elemento da sottolineare – e forse da cui prendere spunto – è la grande attenzione del sistema Paese al sostegno delle proprie imprese, che ha portato alla istituzione di una struttura a partecipazione mista (pubblico-privata) denominata ADIT (Agence pour la Diffusion dell’Information Technologique), con funzioni di business intelligence e competitive intelligence, a supporto dell’intelligence economica governativa.

Accanto a questa opera la Ecole de Guerre Economique, creata nel 1997 (che si affianca alla Ecole de Guerre). Si tratta di una struttura di formazione, studio e ricerca, che è divenuta anche un canale privilegiato per veicolare informazioni strategiche di tipo economico e industriale, provenienti dai servizi di sicurezza e da altre fonti.

La Francia si è inoltre dotata di una apposita norma « antiscor rerie », finalizzata ad assicurare la trasparenza sugli assetti proprietari e delle possibili » scalate » di aziende quotate, che ha recentemente ispirato la legislazione italiana in materia. L’articolo 13 del decreto legge n. 148 del 2017 ha infatti introdotto norme in materia di trasparenza societaria, prevedendo un sensibile ampliamento degli obblighi di comunicazione che gravano sui soggetti che acquisiscono partecipazioni rilevanti in società quotate.

L’efficacia di questo sistema è stata evidenziata nel corso delle audizioni svolte, ove si è fatto riferimento ad un interesse francese strategico e coordinato per le imprese assicurative italiane e per le PMI in generale, di cui si dirà in seguito.

3. Strumenti a tutela dell’interesse nazionale 

3.1. Golden power 

Il decreto legge 15 marzo 2012, n. 21, ha previsto l’attribuzione al Governo di « poteri speciali » (golden power), consistenti nella facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisto di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazioni.

Con il decreto-legge 105 del 2019 il legislatore ha ampliato l’ambito di applicazione di tale disciplina ad alcuni settori di rilievo strategico (infrastrutture critiche nei settori energia, salute, finanza, trattamento e archiviazione dati e tecnologie nei settori dell’intelligenza artificiale e cibernetica), previsti dal regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 marzo 2019 in tema di controllo degli investimenti diretti extraeuropei (entrato pienamente in vigore l’11 ottobre u.s.).

Il recente decreto legge 28 aprile 2020, n. 23 (articoli 15 e 16), ha esteso la disciplina del golden power ai settori creditizio, bancario e assicurativo, e, fino al 31 dicembre 2020, ha previsto che gli obblighi della normativa si applichino anche ai soggetti intra-UE che assumano il controllo della società operanti nei settori strategici di interesse nazionale.

Inoltre in caso di acquisto da parte di un soggetto extra-UE non è più richiesta l’acquisizione del controllo ma è sufficiente il superamento di una soglia minima del 10 per cento del capitale sociale o dei diritti di voto purché il valore complessivo dell’investimento sia pari o superiore a un milione di euro.

È stata poi introdotta la possibilità per il Governo di avviare d’ufficio la procedura di controllo, in tutti i settori interessati dalla normativa, sia nei casi di violazione degli obblighi di notifica, sia in assenza di quest’ultima.

Tali rilevanti modifiche – che peraltro sono state oggetto di una positiva valutazione da parte del Copasir, che ne ha condiviso l’ispirazione e gli obiettivi – intendono rafforzare sensibilmente la tutela degli asset nazionali di fronte alle sempre più frequenti iniziative di gruppi e soggetti esteri, tanto più in un periodo particolarmente critico sul piano economico e finanziario, come quello determinato dalle conseguenze della emergenza Covid-19.

Una ulteriore forma di difesa, complementare a quella rappresentata dal golden power, è contenuta all’articolo 17 dello stesso decreto-legge n. 23, il quale, in un’ottica di protezione delle piccole e medie imprese, modifica l’articolo 120 del Testo Unico della Finanza, il quale prevede che i soggetti « che partecipano in un emittente azioni quotate avente l’Italia come Stato membro d’origine in misura superiore al tre per cento del capitale ne danno comunicazione alla società partecipata e alla CONSOB. Nel caso in cui l’emittente sia una PMI, tale soglia è pari al cinque per cento ». Il nuovo testo consente ora alla Consob di sottoporre a verifica operazioni con valori inferiori al 3 e al 5 per cento del capitale, indipendentemente dall’elevata quotazione di mercato della società target e quindi anche nei confronti di PMI non quotate ad azionariato diffuso, nonché di imporre, temporaneamente, anche ad acquirenti di una quota del capitale sociale pari al 5 per cento, l’obbligo di fornire i chiarimenti circa gli obiettivi che ha intenzione di perseguire nel corso dei sei mesi successivi dall’acquisto della partecipazione.

3.2. Cassa Depositi e Prestiti 

Dal punto di vista delle strategie economico-finanziarie del sistema Paese, un ruolo primario riveste Cassa Depositi e Prestiti, società di cui il Ministero dell’economia detiene l’82 per cento del pacchetto azionario, mentre la quota restante è di proprietà di numerose fondazioni bancarie.

Cassa Depositi e Prestiti è una società controllata all’82,77 per cento dal Ministero dell’economia e delle finanze. Le sue attività in gestione separata, ossia quelle finanziate prevalentemente con risorse provenienti dal risparmio postale, sono oggetto dell’attività di vigilanza di una apposita Commissione, istituita con R.D. n. 453 del 1913 e composta da deputati e senatori, oltre che da soggetti non parlamen tari (Giustizia amministrativa e Corte dei Conti).

È quindi una importante istituzione finanziaria (oltre 450 miliardi di euro di attivo), che al tempo stesso svolge un rilevante ruolo di holding di partecipazione nel Paese (oltre 500 aziende, tra le quali Eni, Terna e Snam, per un totale di 34 miliardi). La raccolta di risparmio postale (circa 270 miliardi) costituisce un altro elemento qualificante di CDP. A ciò va aggiunto il contributo al debito pubblico, attraverso l’acquisto consistente di titoli di Stato – il portafoglio attuale ammonta a circa 70 miliardi – e il finanziamento diretto al conto corrente di tesoreria.

Significativo è il supporto che Cassa Depositi e Prestiti fornisce a grandi aziende nazionali, come è avvenuto con l’aumento di capitale sottoscritto per Ansaldo Energia, o con il sostegno assicurato a Salini Impregilo e Trevi, ed anche a banche e istituti di credito.

In sostanza, CDP si profila come una società pubblica, che raccoglie risparmio dei cittadini, dispone di una rete di partecipazioni rilevanti e di una consistente liquidità ed ha assunto un ruolo di prezioso sostegno dell’economia nazionale. In tale quadro, essa può rappresentare uno strumento fondamentale per assicurare supporto finanziario alle imprese nazionali, con particolare riguardo a quelle realtà che risultano maggiormente penalizzate dalle gravi ricadute della emergenza sanitaria tuttora in atto.

Da questo punto di vista, il Comitato ritiene opportuno che venga incrementato il coinvolgimento di CDP – con una opportuna e tempestiva informazione al Parlamento – nelle strategie che il Governo dovrà necessariamente adottare per il rilancio dei molti settori industriali e finanziari colpiti dalla crisi, rendendo più strut turate e pianificate le iniziative, già sperimentate con successo, che la società ha assunto negli ultimi anni.

4. Crediti deteriorati e criticità derivanti dalla emergenza Covid-19 4.1. Ricadute della pandemia sul sistema finanziario 

La situazione emergenziale provocata dal Covid-19 rischia di produrre effetti esiziali sul sistema finanziario e creditizio del Paese, in quanto diverse ricadute negative si ripercuoteranno sulle esposi zioni creditizie, quali:

difficoltà degli istituti bancari a concedere crediti alle imprese, soprattutto alle PMI, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema economico, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, dove si riscontra una maggiore presenza di aziende di grandi dimensioni;

aumento dei crediti incagliati (passaggio da crediti in bonis a crediti incagliati, i cosiddetti unlikely to pay – UTP);

passaggio di crediti incagliati a crediti in sofferenza (da crediti UTP a crediti non-performing loans- NPL);

diminuzione del valore degli NPL, le cui probabilità di recupero

diminuiranno con conseguente difficoltà a collocarli sul mercato;

possibile effetto domino sui titoli finanziari composti da panieri di crediti da cartolarizzazione, i cui margini di rendimento erano basati su calcoli che non includevano rischi di portata eccezionale come la pandemia da Covid-19.

Secondo quanto emerso in alcune audizioni, il tema degli NPL si ricollega strettamente alla carenza di crescita del Paese, che tuttora non è tornato ai livelli di PIL del 2007, e che dopo l’emergenza Covid-19 avrà di fronte un ulteriore periodo di forte contrazione. La cessione degli NPL da parte delle banche nazionali è stata negli ultimi anni consistente, ma ha dovuto necessariamente accettare prezzi poco remunerativi, visto l’elevato margine di rischio per gli acquirenti (generalmente gruppi inglesi specializzati in tali operazioni).

Attualmente in Italia gli NPL contabilizzati sui bilanci delle banche – secondo i dati forniti nelle audizioni al Comitato – sono pari a circa 177 miliardi di euro, dei quali 96 di sofferenze e 81 miliardi di crediti UTP.

Complessivamente, registriamo una percentuale dell’8,02 per cento (cosiddetta Non-Performing Exposure-NPE) dei crediti deterio rati sul totale attivo delle banche costituito da crediti verso famiglie e imprese.

Inoltre, bisogna considerare anche i 184 miliardi di euro ancora da gestire, ceduti a società di servicing da parte delle banche nel periodo 2015-2019, che potrebbero vedere incrementate le probabilità di mancato recupero con conseguente write-off (ovvero cancellazione dai bilanci) delle predette società, spesso controllate dalle banche stesse.

In merito ai summenzionati crediti ceduti e ancora da gestire, 68,7 miliardi di euro – meno di un terzo – sono stati immessi sul mercato grazie al Fondo di Garanzia sulla Cartolarizzazione delle Sofferenze (GACS), istituito nel 2016 dal decreto legge 14 febbraio 2016, n. 18, e prorogato fino al 5 marzo 2019, che prevede la concessione di una garanzia da parte del Ministero dell’economia e delle finanze sulle passività emesse nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione (arti colo 1 della legge 30 aprile 1999, n. 130), a fronte della cessione da parte delle banche dei crediti in sofferenza a una società veicolo (Special Purpose Vehicle-SPV). La GACS – incondizionata, irrevocabile e a prima richiesta – copre i detentori dei titoli cartolarizzazione cosiddetti « senior » (con un rating di almeno BBB) per l’ipotesi di mancato pagamento delle somme dovute per capitale e interessi.

Con il decreto-legge 25 marzo 2019, n. 22, la GACS è stata rinnovata, con alcune modifiche, per 24 mesi (prorogabili per ulteriori 12 mesi), a far data dalla positiva decisione della Commissione Europea.

Pertanto permane un gravissimo rischio a livello sistemico per il settore finanziario di un significativo incremento dei crediti deterio rati, fino al punto che gli NPL potrebbero astrattamente salire significativamente in percentuale rispetto agli attivi bancari verso privati e imprese e quindi posizionarsi in un range compreso tra 555 e 788 miliardi di euro, rispettivamente pari a un NPE tra il 25 per cento e il 35 per cento dei predetti attivi bancari.

Ciò potrebbe innescare, come già visto solo pochi anni fa, un circolo vizioso fatto di eccesso NPL/credit crunch/recessione.

Attraverso una analisi comparativa, applicando gli stessi parame tri, ossia un incremento del NPE tra il 25 per cento e il 35 per cento degli attivi bancari verso famiglie ed imprese, secondo una simula zione dell’EBA-Autorità Bancaria Europea si otterrebbe che in Francia gli NPL a causa dell’emergenza Covid-19 si posizionerebbero in un range tra 1.181 e 1.654 miliardi di euro. Per un raffronto europeo di scala simile, in queste condizioni la Germania potrebbe vedere l’ammontare di NPL salire fino a un range tra 638 e 893 miliardi di euro.

4.2. Criticità delle regole europee per la ripresa dell’economia in Italia 

A seguito della entrata in vigore del Calendar provisioning, un insieme di regole adottate dalla BCE a fine 2018, le banche sono tenute a recuperare i crediti secondo una tempistica molto stringente, a prescindere dalla possibilità di un effettivo recupero del credito stesso, che purtroppo nel nostro Paese sconta i tempi spesso molto lunghi della giustizia civile.

In particolare, i limiti temporali sono fissati in tre anni per i crediti garantiti e in sette anni per gli altri: una regola molto rigida, che produce conseguenze fortemente negative per le banche stesse, che nel caso superino la soglia del 5 per cento di crediti ‘in sofferenza’, sono sottoposte a controlli molto rigorosi da parte della BCE. Per evitare il superamento della soglia, le banche sono spesso costrette a cedere questi crediti a condizioni molto svantaggiose, di cui fondi e soggetti speculatori stranieri possono facilmente approfittare.

A ciò si aggiunga la mancata estensione della moratoria per il recupero dei crediti, per cui era previsto il termine del 30 settembre. A tale riguardo, si riscontra un disallineamento con le politiche nazionali (il decreto legge n. 104 del 2020, Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia, proroga infatti il termine al 31 gennaio 2021). La normativa europea prevale tuttavia su quella nazionale, e le conseguenze sulle prospettive di recupero della situazione economica di crisi, derivante anche dalla emergenza sanitaria Covid-19, tuttora in atto, ricadono direttamente sulle aziende, trattandosi di 300 miliardi di euro, circa il 27 per cento del fatturato complessivo delle imprese nazionali. L’eccessiva rigidità di queste regole, oltre a favorire il rischio di default di molte piccole e medie imprese italiane, ha conseguenze rilevanti anche sull’occupa zione, con la prevedibile perdita di numerosi posti di lavoro.

Gli interventi legislativi nazionali che hanno previsto la garanzia dello Stato per i crediti delle imprese, hanno aiutato ma non risolto la criticità, che risiede essenzialmente nelle regole europee, che come già detto risultano estremamente restrittive, e si accompagnano ad una sorveglianza stringente e poco flessibile da parte della BCE. E questo malgrado le attività di prevenzione dei rischi poste in essere dalla maggior parte delle banche italiane, proprio per evitare un eccessivo appesantimento del portafoglio mediante detenzione di crediti dete riorati.

Si rileva peraltro che la politica europea sul settore appare caratterizzata da un lato dalla forte attenzione e rigidità in materia di regole sul credito all’economia, dall’altro da una significativa (e forse eccessiva) flessibilità sulle attività finanziarie perseguite dai grandi fondi internazionali.

Anche sulla gestione dei titoli di Stato, nel corso delle audizioni sono emerse alcune criticità delle regole europee. In particolare, va menzionata la normativa Solvency II, che si applica alle compagnie assicurative operanti in ambito UE. Essa ha introdotto una complessa serie di criteri di solvibilità/affidabilità, commisurati ai valori di mercato degli asset posseduti, ed ha previsto una specifica ‘pondera zione’ dei titoli di Stato. Ciò comporta che i titoli italiani siano valutati in modo diverso da quelli di altri Paesi, e questo può incidere, penalizzandolo, sul valore patrimoniale dei gruppi che detengono titoli nazionali in momenti di crisi (dovuti al rialzo dello spread o ad altri fattori). L’effetto sostanziale di questa normativa è quello di indurre le imprese assicurative a una forte limitazione del proprio pacchetto di titoli di Stato italiani, per evitare il rischio che le fluttuazioni dei titoli stessi comportino forti perdite del valore patrimoniale e co stringano quindi a ricapitalizzazioni, che favoriscono nella maggior parte dei casi l’ingresso di capitali stranieri.

4.3. Riflessi sulle piccole e medie banche italiane 

In un contesto come quello italiano, caratterizzato da una miriade di piccole e medie imprese, i piccoli istituti di credito – e in particolare le Banche di Credito Cooperativo (BCC) – presenti su tutto il territorio, e non condizionati da scenari macro economici e finanziari, hanno costantemente e positivamente operato localmente, nell’interesse delle aree territoriali in cui sono tradizionalmente radicate.

Tuttavia, la regolamentazione europea considera significant le BCC per il solo fatto di essere confluite nei gruppi bancari cooperativi, l’adesione ai quali è stata resa peraltro obbligatoria con il decreto legge 14 febbraio 2016, n. 18. In questo modo esse rientrano nel novero delle grandi banche sottoposte al Meccanismo di vigilanza unico (MVU) che fa capo alla BCE: un meccanismo che comporta oneri molto pesanti per le piccole banche. Le BCC vengono infatti considerate, dal punto di vista dei controlli, degli oneri normativi e dei vincoli patrimoniali cui sono sottoposte, alla stessa stregua di colossi bancari nazionali ed europei.

Altri importanti Paesi, quali soprattutto Stati Uniti e Germania, hanno ben compreso l’importanza di disporre di un tessuto di piccole banche territoriali efficienti e si sono attivati per tempo per non penalizzarle. L’Italia, invece, che vanta in Europa il maggior numero di piccole e medie imprese (che generano circa l’80 per cento dell’occupazione totale), ad eccezione di qualche miglioria apportata alla riforma delle BCC, non ha registrato, sino ad oggi, alcun tentativo di valorizzare meccanismi virtuosi di concessione del credito locale alle PMI meritevoli, né tantomeno di operare affinché questi mecca nismi vengano mantenuti e, se possibile, migliorati in tutta Europa.

L’Italia nel 2005 è stato l’unico tra i maggiori Paesi europei ad aver imposto l’obbligo di redazione del bilancio in base ai principi contabili internazionali (IAS) anche per le banche non quotate, quali sono le più piccole. Tale obbligo oggi, a causa dell’avversa congiuntura economica e sociale determinata dalla emergenza Covid-19 genera problemi per la valutazione dei titoli di Stato detenuti e comporta una inevitabile riduzione di credito per le previsioni contenute nel nuovo principio IFRS (standard introdotto nel 2008 dallo IASB – Interna tional Accounting Standards Board – per la rilevazione e valutazione degli strumenti finanziari).

La riduzione di credito si traduce, quindi, in una minore assistenza alle piccole imprese e, di conseguenza, in una ridotta stabilità per le stesse e, inevitabilmente, in meno posti di lavoro, determinando un progressivo ma inevitabile deterioramento delle condizioni di vita di questa importantissima categoria di imprese.

La soluzione potrebbe risiedere nell’applicazione del principio di proporzionalità, ovvero una distinzione per dimensione e categoria, regola fondamentale dell’ordinamento comunitario, che dovrebbe riguardare anche la regolamentazione bancaria e il sistema di supervisione unica.

L’attuazione del principio di proporzionalità creerebbe un sistema bancario più equo e tutelante. Emblematica è la proposta tedesca di una regolamentazione ad hoc per le piccole banche che prevede norme prudenziali più semplici, coerenti con il loro modello di business e sottoposte alla vigilanza dell’Istituto centrale nazionale.

Nel nostro ordinamento, la norma fondamentale del settore cooperativo, l’articolo 45 della Costituzione, obbliga il legislatore ordinario, considerata la « funzione sociale » della cooperazione a carattere di mutualità, a promuovere e tutelare il credito cooperativo, espressione di democrazia, nell’assetto dell’intermediazione finanzia ria, garantendone l’autonomia sufficiente a svolgere proficuamente la sua missione di supporto delle economie locali e salvaguardando le diversità esistenti all’interno del sistema bancario. In questo fonda mentale precetto costituzionale si possono ravvisare gli elementi per una rivisitazione della disciplina delle gestioni bancarie minori a struttura cooperativo-mutualistica, all’insegna della proporzionalità e della valorizzazione dell’autonomia funzionale.

Studiosi e analisti hanno evidenziato la necessità di una concreta applicazione del principio di proporzionalità nella regolamentazione bancaria europea. Considerare significant le BCC italiane confluite ora nei due gruppi bancari cooperativi porta al paradosso che il numero delle banche italiane direttamente vigilate dalla BCE è quasi il 60 per cento, contro l’1 per cento della Germania.

5. Considerazioni sulle operazioni in atto 

5.1. Le trattative su Borsa Italiana S.p.A. 

In merito alle situazioni di specifica attualità, l’attenzione del Comitato si è rivolta in primo luogo alle vicende di acquisizione del gruppo Borsa Italiana, controllata da London Stock Exchange, per la quale, al momento dell’avvio delle audizioni, era emerso l’interesse di un gruppo francese (Euronext), uno tedesco (Deutsche Börse) e uno svizzero (Swiss Exchange).

Il gruppo Borsa Italiana è composto da cinque società: Borsa Italiana, MTS (Mercato Titoli di Stato, che gestisce appunto i titoli), Cassa di compensazione e garanzia, Monte Titoli ed Elite.

Borsa Italiana si occupa della gestione dei mercati primario e secondario; MTS è la principale piattaforma di negoziazione all’in grosso di titoli di Stato; la Cassa di compensazione e garanzia si occupa della compensazione delle posizioni creditorie e debitorie dei soggetti che acquistano e vendono i titoli; Monte Titoli si occupa del regolamento e della custodia dei titoli; Elite, infine, è una nuova società che rappresenta una piattaforma che coinvolge imprese provenienti da circa 35 Paesi del mondo, con l’obiettivo di avvicinare tali imprese al mercato dei capitali.

Il gruppo è di proprietà della società inglese London Stock Exchange, con la presenza di due italiani nel consiglio di ammini strazione della società. Il dossier ha assunto una particolare rilevanza in considerazione di due importanti questioni: la prima è l’acquisi zione del gruppo Refinitiv da parte del London Stock Exchange, la seconda è rappresentata dalle conseguenze della Brexit.

Refinitiv si occupa principalmente di gestione di dati ed è il secondo player al mondo dopo Bloomberg, che è la piattaforma che distribuisce dati tramite terminali, a chi opera sui mercati finanziari. Detiene inoltre piattaforme di mercato, ad esempio Tradeweb, molto attivo nel mercato dei cambi, delle valute e sui titoli obbligazionari.

La peculiarità della operazione, che attende ancora l’approvazione dell’Antitrust europea (rinviata al 16 dicembre), consiste nel fatto che tale società è dimensionalmente più grande di quella acquirente (20.000 dipendenti contro 6.000). Se tale operazione avesse esito positivo, il London Exchange diventerebbe una delle principali piat taforme di contrattazione al mondo, con il rischio di marginalizzare il ruolo e il peso di Borsa Italiana. Ulteriore preoccupazione è stata legata alla decisione dell’Antitrust, che rilevando una sovrapposizione fra le attività di MTS (società facente capo come detto a Borsa Italiana) e quelle di Tradeweb (società facente capo a Refinitiv), avrebbe potuto chiedere la cessione di MTS, la quale, scorporata da Borsa Italiana, ne sarebbe risultata notevolmente indebolita.

Al riguardo, giova infatti evidenziare la valenza strategica che riveste MTS per la liquidità del debito pubblico italiano; in altri termini perdere tale società comporterebbe un danno per il sistema nazionale. Grazie alla piattaforma MTS infatti non solo si svolgono le transazioni sui titoli di Stato, ma questi possono essere rifinanziati attraverso operazioni di repo, che sono molto rilevanti, con un ammontare che supera quotidianamente i 100 miliardi.

Quanto al secondo aspetto, relativo alle conseguenze della Brexit, occorre considerare le problematiche che sarebbero potute emergere dalle possibili divergenze di regolamentazione tra le normative del l’Unione europea e quelle extra UE che si sarebbero determinate in caso di permanenza del controllo di Borsa Italiana da parte del gruppo London Exchange. Ciò anche in relazione alla necessità di garantire l’autonomia di Borsa Italiana nel finanziamento delle imprese nazionali.

A ciò si aggiunga che il London Stock Exchange sta progressivamente acquisendo una identità anglo-americana piuttosto che europea.

A fronte di tali criticità e del pericolo che la posizione di Borsa Italiana potesse bloccare l’operazione con Refinitiv, London Stock Exchange ha avviato due paralleli processi di cessione, uno inerente a MTS e l’altro all’intera Borsa Italiana. Gli sviluppi della trattativa hanno visto l’intervento di una cordata composta dalla francese Euronext, Cassa Depositi e Prestiti e Intesa Sanpaolo che, dopo aver ottenuto un periodo di esclusiva, ha concluso l’acquisizione di Borsa Italiana per un prezzo di 4,325 miliardi di euro. Secondo lo schema dell’operazione, CDP diventerebbe il primo azionista del nuovo gruppo, con connessa presenza nel consiglio di amministrazione della società, e quindi verrebbe recuperato il controllo nazionale, anche attraverso la governance, su Borsa Italiana, condivisa alla pari della sua omologa francese (ciascuno con una quota pari a circa il 7,3 per cento (1)).

Il Gruppo Euronext fa parte inoltre dell’Eurozona e renderebbe Borsa Italiana partecipe di un network inserito nel mercato e nel contesto regolatorio europeo, con un indubbio vantaggio rispetto all’ipotesi che a detenerlo possa essere un soggetto extra UE.

Sono state pertanto accantonate le offerte di Deutsche Börse (che a quanto risulta era la più economicamente vantaggiosa) e di Swiss Exchange. Quest’ultima, secondo quanto riferito dal Ministro dell’economia e delle finanze, in quanto non è sembrato opportuno affidare il mercato azionario italiano ad un soggetto esterno alla Unione europea. Circa l’offerta di Deutsche Börse, non sono state chiarite le motivazioni che hanno determinato la scelta verso l’altra soluzione.

Il destino di Borsa Italiana è stato – e continua a rappresentare – una partita di assoluto interesse per l’Italia, attesa la strategicità dei meccanismi che sovrintendono ai mercati azionari: un mercato definisce il listino e i meccanismi di quotazione, fissa le regole, le tariffe e stabilisce le procedure di accesso a forme di finanziamento alternative al canale bancario.

(1) Gli altri principali azionisti saranno Euroclear (4 per cento), SFPI (3,4 per cento), Intesa Sanpaolo (1,5 per cento) e ABN (0,4 per cento).

In tal senso, l’infrastruttura finanziaria del mercato borsistico nazionale è un asset strategico per garantire lo sviluppo del tessuto industriale del Paese, essendo uno dei principali canali alternativi a quello bancario per il reperimento di risorse da parte delle imprese e rappresentando un trampolino di lancio per la proiezione interna zionale delle aziende italiane.

5.2. L’operazione Intesa-UBI 

Intesa Sanpaolo è il primo gruppo bancario italiano, e il terzo in Europa per capitalizzazione complessiva, dopo la francese BNP Paribas e la spagnola Santander. Esso rappresenta quindi uno dei principali asset strategici del Paese, con una governance interamente italiana, e concentra la propria attività soprattutto sulle aziende nazionali, offrendo affidamenti per circa 450 miliardi di euro, che corrispondono a circa un quarto del PIL del Paese. Intesa è inoltre tra i principali sottoscrittori dei titoli di Stato (circa 100 miliardi), e risulta essere il principale creditore dello Stato dopo la BCE.

Accanto a tale dato, che afferisce all’economia reale, va anche rilevato il ruolo della banca nell’economia sociale, che si concretizza ad esempio con alcuni progetti dedicati ad affrontare i problemi connessi alla crisi economica e all’aumento della povertà nel nostro Paese.

Sulla base di questi elementi (e per altri che per esigenze di sintesi non vengono riportati in questa sede), risulta evidente la solidità economica e in termini di valore finanziario, di Intesa Sanpaolo, che ad oggi non appare oggetto di alcuna possibile « scalata ».

In questo quadro si colloca l’Offerta Pubblica di Scambio (OPS) lanciata su UBI Banca S.p.A., che costituisce un gruppo con forte radicamento territoriale, nato dalla Banca Popolare di Bergamo, dal Credito Agrario Bresciano e dall’Istituto San Paolo di Brescia.

Essa, presente inizialmente soprattutto in Lombardia, con il tempo è diventata una Banca nazionale, considerata per le dimensioni la quarta in Italia (uniche due regioni in cui UBI non è presente sono Sicilia e Sardegna).

Dal 2015 ha assunto la forma di società per azioni, pur mantenendo un profilo di proprietà essenzialmente diffusa, tanto che il numero degli azionisti supera i 150.000, fra i quali numerosi piccoli imprenditori e famiglie. Parte dell’azionariato è costituito da fondi di investimento; i due principali sono Silchester e Parvus (quest’ultimo, che detiene l’8 per cento del pacchetto azionario, ha sede legale alle isole Cayman).

UBI Banca detiene inoltre circa 10 miliardi di titoli di Stato.

L’operazione, portata a termine lo scorso 31 luglio, ad avviso del Comitato, da un lato, ha rappresentato l’opportunità per l’Italia di dotarsi di una banca di ‘sicurezza nazionale’, analogamente a quanto avviene in molti altri Paesi, ove il consolidamento bancario è giudicato con favore, ma, dall’altro, ha evidenziato le potenziali criticità connesse alla creazione di un soggetto dominante sul mercato bancario che potrebbe rappresentare un pericolo per gli equilibri e le dinamiche dell’intero settore, penalizzando imprese di medie e piccole dimensioni, specificamente legate alle realtà locali, e quindi maggior mente in grado di conoscerne le reali esigenze.

Non vanno infatti trascurati aspetti di economia sociale che, soprattutto in una fase di crisi economica e di esigenze di liquidità da parte delle PMI, devono essere considerate prioritarie, anche in relazione alle peculiarità che caratterizzano Nord e Sud del Paese.

Ciononostante, l’OPS portata a termine da Intesa Sanpaolo sembra aver dato impulso all’auspicato processo di consolidamento del sistema bancario italiano, spingendo diversi Istituti concorrenti a studiare operazioni di aggregazione con altri players attivi in Italia. Tra questi si evidenziano UniCredit, Banco BPM, MPS e Crédit Agricole Italia (CAI), che si sarebbero attivati al fine di non perdere terreno nei confronti dell’Istituto torinese.

In aggiunta, il successo dell’OPS potrebbe consentire a BPER, partner di Intesa Sanpaolo nell’operazione, di aumentare la propria dimensione nel mercato nazionale e di proporsi quale nuovo soggetto aggregatore intorno al quale costruire un terzo polo bancario italiano.

Infine, l’OPS su UBI Banca, oltre a consentire al gruppo Intesa Sanpaolo di divenire il primo istituto di credito in Italia, gli ha permesso di assumere una posizione di primissimo piano anche nel panorama bancario europeo dove, in prospettiva, si potrà assistere a ulteriori operazioni di consolidamento. In tale scenario, Intesa Sanpaolo potrebbe giocare un ruolo centrale quale attore proattivo nell’ambito di un’operazione di aggregazione con un altro operatore europeo.

In considerazione del progressivo affermarsi di un nuovo paradigma secondo cui le dinamiche geo-economiche rappresentano una leva fondamentale per l’attuazione delle strategie geopolitiche di un Paese, la proiezione estera di Intesa Sanpaolo potrebbe rappresentare per l’Italia una pedina fondamentale con cui giocare le proprie future partite nell’ambito dello scacchiere europeo.

5.3. Progettualità di UniCredit 

UniCredit è uno dei principali attori del settore bancario nazionale, l’unico, al momento, capace di coniugare una posizione di leadership nel mercato italiano con un’anima europea, grazie a una ramificata presenza in 18 Paesi nel mondo e, in particolare, in Europa centro-orientale, in Austria (dove controlla interamente Bank Austria) e in Germania (con la partecipata HypoVereinsbank – HVB, tra le prime 5 banche tedesche per ammontare di asset e numero di dipendenti).

In Italia, UniCredit rappresenta il secondo gruppo bancario per numero di sportelli (2.700) e, secondo le elaborazioni dell’Autorità Antitrust italiana, detiene il 10-15 per cento della raccolta complessiva del sistema italiano e il 10-15 per cento dei prestiti alle famiglie, il 5-10 per cento di quelli alle PMI e una quota del 10-15 per cento delle erogazioni alle imprese di medie e grandi dimensioni. Sul territorio nazionale, l’Istituto impiega circa 37.000 dipendenti e, in termini di capitalizzazione di Borsa (pari a circa

16 miliardi di euro), è la seconda banca, dopo Intesa Sanpaolo, e tra le prime dieci imprese quotate a Piazza Affari. UniCredit, infine, rappresenta uno dei principali investitori in titoli di Stato italiani con un portafoglio che, al 30 giugno 2020, ammontava a circa 44 miliardi di euro.

Nonostante la rilevanza di UniCredit per il sistema economico e finanziario nazionale, l’istituto milanese ha assunto negli ultimi anni alcune iniziative apparentemente volte ad affrancare la banca dall’Italia. In tal senso potrebbero essere infatti inquadrate le operazioni di cessione di UniCredit di alcuni « gioielli italiani », quali Fineco e Pioneer, ovvero la riduzione del portafoglio di BTP che, dal 2016 ad oggi, è diminuito di circa 11 miliardi di euro.

Il gruppo sembra inoltre avviato verso una progressiva contrazione della propria presenza sul territorio nazionale, come attestato dal piano industriale Team23 (per il periodo 2020 – 2023), presentato ai mercati il 3 dicembre 2019, nel quale è stato previsto un taglio di circa 8.000 dipendenti, principalmente in Italia (circa 6.000) dove il personale verrà ridotto del 21 per cento, e la chiusura di 500 filiali, di cui 450 nel nostro Paese.

Risulta inoltre che UniCredit avrebbe in animo una profonda ristrutturazione, che prevede la costituzione di una subholding nella quale dovrebbero essere incluse tutte le attività estere della banca. Il timore è che tale iniziativa sia prodromica alla cessione delle attività estere di UniCredit, che perderebbe così la sua anima internazionale; altra ipotesi potrebbe essere un’operazione d’integrazione della banca con un altro istituto estero, che potrebbe sancire il definitivo disimpegno della Banca dall’Italia.

Al riguardo, negli ultimi mesi si sono susseguite preoccupanti notizie su possibili operazioni di fusione di UniCredit con altri players stranieri, tra cui: l’istituto tedesco Commerzbank (2), ovvero le banche francesi Crédit Agricole (CA) e Société Générale (SOCGEN).

A parere del Comitato, le iniziative da parte di attori esteri su entità strategiche per la sicurezza economica nazionale rappresentano un rischio di particolare rilevanza per il sistema bancario e del pubblico risparmio, atteso che, oltre a pregiudicarne l’indipendenza, le stesse potrebbero determinare una forte asimmetria tra l’area di raccolta delle risorse finanziarie (3) (Italia) e quella di impiego delle stesse (estero). Infatti, pur continuando a provenire dalle famiglie e dalle imprese italiane, le risorse raccolte da UniCredit potrebbero essere impiegate per finanziare territori e sistemi produttivi esteri.

In aggiunta, una sostanziale contrazione delle attività bancarie svolte da UniCredit in Italia, ovvero una progressiva riduzione degli investimenti effettuati dal gruppo in titoli di Stato italiani, potrebbero produrre un impatto negativo per il nostro Paese.

(2) Commerzbank AG è la seconda maggiore banca tedesca, quotata alla borsa di Francoforte e partecipata con una quota del 15,6 per cento dalla Repubblica Federale Tedesca.

(3) Intese come depositi, certificati bancari, pronti contro termine e obbligazioni collocate alla clientela.

5.4. Le criticità del sistema assicurativo nazionale 

Accanto al sistema bancario, occorre valutare la situazione del sistema assicurativo, che in Italia vede la prevalenza di due grandi attori principali: Generali e Unipol. Si può quindi dire che in questo settore è già avvenuta quella operazione di consolidamento che invece è tuttora in atto nel sistema bancario.

Il gruppo Generali S.p.A. è uno dei principali operatori assicu rativi e del risparmio nel mondo, con circa 70 miliardi di premi e un patrimonio pari a 630 milioni nel 2019.

A livello nazionale, Generali, oltre ad essere il primo operatore assicurativo, è anche il maggiore gruppo nel settore del risparmio gestito, con investimenti rilevanti sia nei titoli di Stato italiani, sia nei titoli obbligazionari e azionari delle imprese italiane.

La forte proiezione internazionale è un altro aspetto che carat terizza il gruppo: le attività sul mercato estero – allocate in tutti i principali Paesi europei ed in molti extraeuropei – hanno prodotto nel 2019 oltre il 65 per cento del risultato operativo complessivo.

Il gruppo, nell’ottica di rafforzamento della propria leadership nel settore, ha recentemente annunciato una partnership strategica con Cattolica Assicurazioni, della quale dovrebbe diventare azionista rilevante con circa il 24 per cento del pacchetto azionario.

Su tale questione, va aggiunto che la società assicurativa ha espresso l’intenzione, approvata dall’IVASS, di arrivare al 49,49 per cento del capitale di Cattolica.

Anche alla luce di tali evidenze, il Comitato ritiene che sia di rilevanza strategica mantenere l’indipendenza di Generali, assicurata anche dal mantenimento della governance in Italia.

In tale quadro, si collocano alcune operazioni finanziarie poten zialmente finalizzate alla cessione di Assicurazioni Generali a gruppi assicurativi esteri, tra cui « AXA S.A., di proprietà francese.

L’interesse delle imprese assicurative francesi per quelle italiane è dimostrato dalle operazioni di acquisizione realizzate nel corso degli ultimi anni, tra le quali si menzionano i casi di Roma Vita e Cisalpina Previdenza, entrate a far parte del gruppo francese CNP Assurance SA (controllato dal Ministero delle finanze francese attraverso Caisse de Depots et Consignation) e la Compagnia Nuova Tirrena, entrata a far parte del gruppo francese Groupama.

Le motivazioni alla base di tale interesse si possono rinvenire nei seguenti fattori: la migliore redditività e stabilità patrimoniale delle assicurazioni italiane rispetto a quelle francesi; l’alto tasso di digita lizzazione del mercato assicurativo italiano, in particolare nel ramo RC Auto (il 27 per cento degli assicurati italiani ad esempio, sottoscrive assicurazioni on-line, contro il solo 12 per cento dei francesi): le assicurazioni on-line presentano infatti caratteristiche tali da rendere operativamente più semplice ed economicamente meno dispendiosa la fase di integrazione post-acquisizione.

A ciò si aggiungono possibili vantaggi fiscali: la tassazione sui premi assicurativi nel ramo RC auto in Italia è notevolmente più bassa rispetto alla Francia (22,5 per cento in Italia, contro il 35 per cento in Francia).

Dal punto di vista finanziario, una eventuale cessione di Assicurazioni Generali ad AXA incrementerebbe in misura considerevole la quota – già elevata – di titoli di stato italiani posseduta da operatori francesi.

Se si considera infatti che Assicurazioni Generali possiede 63 miliardi di euro di titoli italiani, a seguito della possibile acquisizione da parte di AXA, il nuovo soggetto economico arriverebbe a detenere complessivamente 85,5 miliardi di euro di titoli italiani, pari al 3,5 per cento di tutto il debito pubblico italiano.

Una quota così elevata di debito pubblico detenuto da investitori esteri (in questo caso francesi, ma l’argomento potrebbe essere ripetibile per altre nazionalità) pone un rischio a livello strategico e di rilievo per l’interesse nazionale.

Inoltre, risulta critico il tema dei dati personali sensibili, quali i dati sulla salute o sulla situazione reddituale e patrimoniale dei sottoscrittori di polizze, che le assicurazioni raccolgono e trattano a livello di singolo sottoscrittore per finalità contrattuali e a livello aggregato per fini attuariali e di profilatura della clientela.

Tale procedura assume notevole rilevanza in quanto gli operatori del settore assicurativo convergono sempre più verso una dematerializzazione delle proprie attività, in particolare attraverso lo strumento delle assicurazioni on-line. Questo aspetto rileva in maniera evidente in vista dell’adozione della tecnologia 5G – già oggetto di approfondite analisi da parte del Comitato – e dei rischi connessi di esfiltrazione di dati sensibili e di attacchi di tipo cyber alla rete.

Pertanto non si può trascurare che, in caso di acquisto di Assicurazioni Generali da parte di AXA, possa scaturire una potenziale esposizione a fattori di vulnerabilità di dati personali – anche sensibili – di cittadini italiani, tenuto conto che gli stessi potrebbero essere trasferiti, trattati e conservati su database e server collocati al di fuori del territorio italiano.

In tale contesto, occorre anche considerare che una partecipazione rilevante di Generali è detenuta con il 13 per cento da Mediobanca S.p.A., che risulta da alcuni mesi al centro di trattative che ne potrebbero modificare l’assetto societario, con il possibile ingresso di soci esteri. Ciò in particolare attraverso l’operazione condotta dalla Delfin, già azionista della stessa Mediobanca per il 10 per cento, e recentemente autorizzata da BCE e Banca d’Italia a salire al 19.9 per cento.

La seconda azienda assicurativa nel panorama nazionale, e la prima per assicurazioni contro i danni, con un fatturato pari a circa 11 miliardi, è UnipolSai, che fa parte del Gruppo Unipol, holding che opera nei settori immobiliare e finanziario. La proprietà del pacchetto azionario del gruppo, prevalentemente italiana, è riconducibile per il 48 per cento a diverse società cooperative (marchio Coop) e per il restante 52 per cento a numerosi investitori, italiani e stranieri.

Unipol opera quasi esclusivamente sul mercato nazionale, con un totale di circa 12.000 dipendenti e una diffusione in tutte le regioni del Paese. Oltre il 50 per cento degli asset, pari a circa 30 miliardi, è investito in titoli nazionali. Tale quota tuttavia è destinata a ridursi, per effetto della normativa Solvency II (di cui si è fatto cenno nel capitolo 4.3).

Quanto alle attività di investimento, Unipol detiene una rilevante partecipazione, pari al 20 per cento, in BPER, presso cui sono depositati i circa 60 miliardi che costituiscono le riserve assicurative dell’azienda. Si deve anche segnalare una piccola partecipazione (2 per cento) in Mediobanca.

Unipol è indirettamente interessata, proprio in quanto detentrice del 20 per cento di BPER, alla Offerta Pubblica di Intesa Sanpaolo per l’acquisto di UBI. Infatti, sulla base di un accordo stipulato con Intesa Sanpaolo, al termine dell’operazione, BPER acquisirà un ramo d’azienda di 532 sportelli di UBI (per oltre il 70 per cento siti nell’Italia settentrionale), composto da depositi e raccolta indiretta pari, rispettivamente, a circa 29 e 31 miliardi, diventando il quarto gruppo bancario del Paese.

6. I rischi connessi alla detenzione estera del debito pubblico italiano 

Secondo quanto affermato nella « Relazione annuale della Banca d’Italia del maggio 2019 su dati al 31 dicembre 2018 », la percentuale di titoli di Stato italiani in possesso di investitori stranieri ammonta al 22,3 per cento (al netto dei titoli detenuti dall’Eurosistema, esclusa la Banca d’Italia, e di quelli nel portafoglio di gestioni patrimoniali e fondi comuni esteri riconducibili a risparmiatori italiani).

Nello specifico, gli operatori istituzionali francesi sarebbero in possesso di 285 miliardi di euro di debito pubblico italiano, che al 31 dicembre 2019, secondo i dati della Banca d’Italia, ammontava complessivamente a 2.409 miliardi. Quindi, l’11,83 per cento è detenuto in mani francesi. L’attivismo francese sul fronte delle acquisizioni di istituti finanziari italiani continua, peraltro, ad essere costante.

Gli operatori esteri, in altri termini, potrebbero essere indotti a porre in essere azioni speculative ostili sui titoli di debito italiani. Questo potrebbe avvenire in almeno due modi. Anzitutto, da un lato, attraverso l’attività di prestito titoli – dietro pagamento di commissione – ad investitori di tipo speculativo (i cosiddetti hedge funds) che effettuano vendite allo scoperto di titoli – short selling – mirando alla speculazione sul prezzo di acquisto degli strumenti finanziari. E in secondo luogo attraverso le vendite di Credit Default Swap (i cosiddetti CDS) il cui prezzo sale all’aumento del rischio di default del Paese (e quindi all’aumento dello spread del tasso di interesse).

Generalmente, le società assicurative sono detentrici di grandi quantità di debito sovrano nel patrimonio di proprietà e nei portafogli gestiti per conto di sottoscrittori di prodotti assicurativi e previden ziali. Esse realizzano ingenti ricavi attraverso il prestito titoli per investitori che effettuano lo short selling. È induttivo comprendere, pertanto, l’importanza per la sicurezza nazionale connessa agli assetti proprietari e di management di questo genere di società, ancorché private e quotate sul mercato dei capitali.

Occorre ricordare due elementi che concorrono al fattore rischio:

1. la volatilità dei prezzi di mercato dei titoli di Stato italiani li rende estremamente sensibili alle citate potenziali azioni speculative ostili;

2. il valore del debito pubblico italiano, per far fronte alla situazione produttiva, economica e sociale generatasi a causa del lockdown da Coronavirus, è andato nel giro di pochi mesi dilatandosi, arrivando alla soglia dei 2.579 miliardi ad agosto 2020, mentre a fine anno potrebbe ulteriormente salire, a seconda delle maggiori spese e dei minori introiti indotti dalla situazione complessiva.

7. Valutazioni finali 

Al termine del ciclo di audizioni e dell’approfondimento svolto, il Comitato ritiene di sottoporre al Parlamento alcune considerazioni.

7.1. Lo scenario internazionale 

Appare evidente che gli organi istituzionali e di governo debbano porre specifica attenzione al tema della stabilità finanziaria del Paese, e ciò in particolare in un momento di crisi come quello attuale, caratterizzato pesantemente dalla emergenza Covid-19. È infatti in atto un’azione di profondo riassetto del capitalismo italiano ed europeo, con implicazioni anche di scenario globale in connessione con l’impatto della pandemia (si pensi al ruolo acquisito dal digitale, dai new media, dalla logistica, dai servizi mediante piattaforme con il relativo fortissimo incremento della produttività e del fatturato dei cosiddetti « giganti del web »).

Il Coronavirus sta determinando importanti conseguenze sia sulle gerarchie del sistema politico internazionale, sia sulle interdipendenze tra nazioni (con i relativi assetti), nonché sulla stessa struttura del sistema produttivo capitalistico, con uno spostamento sempre più marcato dal mondo della manifattura industriale a quello del digitale che genera da un lato crisi produttive e industriali e dall’altro un’impennata dei profitti e della liquidità disponibile per i « giganti del web ». La spinta del « business cloud », infatti, ha fatto decollare la capitalizzazione di alcune società: Alphabet (che controlla Google) a gennaio 2020 è entrata nella lista delle big tech con una capitaliz zazione di oltre 1000 miliardi di dollari, traguardo già tagliato da Apple nel 2018, seguita a ruota da Amazon e infine, nell’aprile 2019, da Microsoft.

Le trimestrali 2020 di questi « big four » hanno registrato tutte un fatturato migliore delle previsioni. Mentre l’economia USA è crollata del 32,9 per cento, nello stesso periodo Apple ha annunciato profitti per l’11 per cento, Facebook ha segnalato un aumento dell’11 per cento del giro d’affari e Amazon ha aumentato i ricavi del 40 per cento.

In questo scenario, il riassetto del sistema bancario europeo e più in generale del comparto finanziario ed assicurativo è lungi dall’aver trovato un proprio punto di equilibrio.

Il sistema bancario italiano affronta le conseguenze economiche della pandemia dopo un lungo percorso di rafforzamento dei propri bilanci, attuato per far fronte alla crisi finanziaria successiva al 2008. Le banche italiane, al pari di quelle degli altri principali Paesi, sono fortemente esposte alle conseguenze economiche della pandemia. La raccolta obbligazionaria delle banche si è arrestata. I rendimenti sul mercato secondario sono rapidamente cresciuti. La liquidità e le esigenze di finanziamento sono fortemente sorrette da un deciso intervento della BCE. E la recessione potrà comportare un consistente aumento delle insolvenze.

Il tutto si colloca in un contesto nel quale il nostro sistema bancario risente di alcuni fattori di debolezza, dato dalla bassa crescita dell’economia, dalla lentezza di smaltimento dei crediti deteriorati, dall’elevato livello del debito pubblico.

Nell’ultimo decennio, la struttura del sistema bancario italiano è fortemente mutata, con una considerevole accelerazione negli ultimi anni. Le banche italiane sono relativamente piccole rispetto ai grandi istituti internazionali. Per fare un paragone, la capitalizzazione di borsa alla fine dello scorso marzo di Intesa Sanpaolo e di UniCredit – le maggiori tra le banche italiane – era rispettivamente pari a circa 26 e 16 miliardi, contro circa 250 per JPMorgan Chase (la più grande banca del mondo). Rimanendo nel campo della UE, la banca di maggiori dimensioni è BNP Paribas con 34 miliardi; Intesa si colloca al quarto posto e UniCredit all’ottavo. Il crollo dei corsi azionari che ha fatto seguito alla diffusione della pandemia non ha sostanzialmente variato i rapporti tra queste grandezze.

Il recente crollo dei corsi ha reso i nostri istituti particolarmente esposti a possibili scalate, come evidenziato dal valore del rapporto tra il prezzo delle azioni e il patrimonio netto contabile (price to book ratio). Esso, già ampiamente inferiore all’unità prima dello scoppio della pandemia, è oggi su valori storicamente bassissimi. Il fatto che le principali banche siano ad azionariato diffuso costituisce un ulteriore fattore di vulnerabilità.

A fronte dell’intensificarsi della concorrenza all’interno del mercato bancario europeo, del crescente numero dei crediti deteriorati e dell’assottigliarsi dei margini di ricavo, le autorità di vigilanza europee hanno da tempo invocato l’avvio di un processo di consolidamento tra gli attori bancari attivi in Europa.

In tal senso, lo scorso 2 luglio 2020, la Commissione di Vigilanza della BCE ha pubblicato una guida per chiarire l’approccio della vigilanza rispetto ai progetti di consolidamento tra gli istituti di credito dell’area Euro. L’orientamento dell’Eurotower è quello di incoraggiare e agevolare i progetti di consolidamento basati su un piano commerciale e di integrazione credibile, e attenti al risparmio, nonché a elevati standard di governance e di gestione dei rischi.

Tra le priorità della BCE per il 2020 ci sono l’incremento della redditività e il rafforzamento dei modelli di business degli istituti europei, chiamati ad assumere un ruolo fondamentale per il sostegno all’economia, in particolare in un contesto caratterizzato dalla crisi generata dalla pandemia da Covid-19. In tal senso, il consolidamento è visto come un motore per spingere le banche dell’area Euro a realizzare economie di scala (funzionali per recuperare redditività), incrementarne l’efficienza e renderle pronte ad affrontare alcune importanti sfide per il prossimo futuro, prima fra tutte la digitalizzazione, che conoscerà una profonda accelerazione con l’entrata in operatività del 5G.

7.2. Le possibili forme di tutela 

Quanto esposto comporta l’esigenza di mettere in campo una politica economica e industriale, intesa come capacità di incrociare la promozione di nuove attività con le aspettative della domanda, mediante l’utilizzo di nuove tecnologie, capitale umano ed economico in un quadro di condivisione tra Governo, Parlamento, parti sociali e opinione pubblica sugli sviluppi della struttura dell’economia, sull’impiego delle risorse pubbliche e sugli obiettivi di fondo. Ciò richiede inoltre che le istituzioni si dotino di competenze e strumenti per affrontare tali nuove sfide, che non possono essere circoscritte esclusivamente al pur significativo perimetro finanziario, e che in ogni caso debbono essere sottoposte agli indirizzi e ai controlli delle istituzioni democratiche, quando ricorrono all’impiego di risorse pubbliche, anche considerando che ciò comporta l’utilizzo di spesa in deficit.

A fronte del rischio di un oggettivo depauperamento nel tessuto economico italiano, soprattutto a seguito della pandemia, occorre ad avviso del Comitato mettere in campo strumenti di tutela del sistema che possono essere diretti, cioè previsti proprio a questo scopo dalla normativa vigente, come il golden power, ovvero indiretti, che si concretizzano in un maggiore controllo esercitato a livello diffuso, attraverso un attento monitoraggio, riferito anche agli aspetti che riguardano la governance degli assetti strategici del Paese.

In tale prospettiva, ad esempio, assume valore l’azione svolta attraverso il cosiddetto soft power, che si declina anche attraverso un’adeguata ed incisiva presenza nelle istituzioni europee – sia apicali sia intermedie – che sempre più divengono i luoghi decisionali, con ricadute dirette sul contesto nazionale. Il ciclo di audizioni, infatti, ha consentito di appurare da un lato l’importanza rilevante dell’impatto sulla vita reale dei cittadini delle decisioni che vengono assunte in tali sedi, e dall’altro l’esistenza di una strategia di azione e di alleanze all’interno del contesto europeo, dalle quali l’Italia non può essere esclusa né chiamarsi fuori.

Anche i processi di governance costituiscono una parte essenziale della sicurezza degli asset strategici del Paese, e in questo senso occorre contemperare le logiche di mercato con gli interessi nazionali, che possono essere meglio garantiti mediante la presenza di figure dirigenziali italiane ai vertici delle società più rilevanti.

Destano a questo riguardo preoccupazione alcune operazioni di mercato che, anche attraverso nomine nei consigli di amministrazione, o comunque ai vertici di rilevanti istituti di credito, rischiano di favorire processi che non garantiscono il perseguimento degli interessi economici nazionali e possono quindi ledere la sicurezza del Paese, in termini di indipendenza e autonomia.

Sulla base di quanto sopra esposto, sarebbe opportuno potenziare l’azione di monitoraggio permanente circa le attività finalizzate all’acquisto del controllo di società creditizie e assicurative italiane da parte di soggetti esteri.

Oltre a un diretto impatto in termini occupazionali e alla possibile perdita di consistenti flussi connessi con le entrate fiscali, l’eventuale trasferimento di campioni nazionali bancari, assicurativi e finanziari all’estero potrebbe diminuire la capacità delle istituzioni nazionali di monitorare e garantire l’implementazione di politiche di investimento coerenti con la necessità del territorio in cui risiedono e da dove tali istituti raccolgono la maggior parte delle loro risorse finanziarie.

In tal senso, il trasferimento all’estero di tali istituti potrebbe generare un’asimmetria geografica tra la fase di raccolta e quella di impiego delle risorse: i depositi raccolti dalla clientela italiana potrebbero essere destinati a finanziare imprese o attività di soggetti esteri, a discapito della competitività delle imprese nazionali o dell’intero tessuto nazionale o addirittura a sostegno di attività palesemente concorrenziali con i players industriali e produttivi del Paese.

Tra gli strumenti diretti per realizzare gli obiettivi indicati, va prioritariamente considerato, come già accennato, l’esercizio dei poteri speciali (golden power), da parte della Presidenza del Consiglio, quale ridefinito dalla recente normativa (articoli 15 e 16 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23). Normativa che è stata estesa, fino al 31 dicembre, anche alle operazioni che vedono coinvolti soggetti appar tenenti a Paesi UE. Appare opportuno che tale termine venga prorogato, in stretta connessione sia con lo stato di emergenza sanitaria, sia con le conseguenze economiche e finanziarie indotte dalla pandemia in corso.

Nel corso delle audizioni, è stata anche ipotizzata, per l’utilizzo dei poteri speciali, la trasformazione dell’attuale sistema, che prevede l’obbligo di notifica da parte delle imprese coinvolte, in un regime autorizzatorio.

Va infatti considerato che alcune operazioni di mercato, in particolare quelle che riguardano il settore bancario e assicurativo, investono da vicino la « tenuta » del sistema, in quanto i principali istituti bancari e assicurativi detengono quote importanti di titoli di Stato italiani, ed appare pertanto molto rischioso l’ingresso di soggetti stranieri, anche europei, nel controllo del relativo portafoglio. La detenzione di quote importanti del debito nazionale da parte di istituti e soggetti esteri può determinare una situazione di soggezione e vulnerabilità del nostro Paese, con conseguenze negative e certamente non auspicabili sulla stabilità e sulla credibilità internazionale.

Un altro strumento di tutela degli interessi nazionali è rappresentato da CDP, che potrebbe assumere un ruolo in alcune operazioni di mercato, come è recentemente avvenuto per l’acquisizione del Gruppo Borsa Italiana, le cui procedure sono tuttora in corso. Non va infatti dimenticato che tra le società componenti del gruppo compare MTS, che rappresenta la principale piattaforma di negoziazione all’ingrosso di titoli di Stato ed assume pertanto un rilievo strategico fondamentale per la stabilità finanziaria del Paese.

A tale riguardo il Comitato, considerato che l’intervento di CDP comporta una scelta politica ed economica rilevante da parte del Ministero dell’economia, sottolinea l’importanza che il Parlamento venga adeguatamente coinvolto in tale processo, attribuendogli per via legislativa il compito di determinare, da un lato, gli indirizzi di impiego delle risorse del « fondo strategico » presso Cassa Depositi e Prestiti, dall’altro, l’operato di quest’ultima nella sua nuova dimensione di « fondo sovrano ». Inoltre, anche l’esercizio dell’azione di controllo sulla piena rispondenza degli impieghi agli indirizzi forniti andrebbe ricondotto alle funzioni di indirizzo parlamentare.

Appare infatti essenziale che su tali decisioni, che coinvolgono profili strategici e quindi di interesse nazionale, la natura ordina mentale dell’Italia come Repubblica parlamentare venga assicurata, sancita e garantita.

7.3. Le operazioni di accorpamento: profili critici 

Quanto alle operazioni bancarie di accorpamento in atto, in linea di principio si esprime apprezzamento per il tentativo di creare strutture bancarie forti e competitive, anche in relazione alle carat teristiche dei sistemi bancari e finanziari degli altri Paesi e alle indicazioni che provengono dalle istituzioni europee.

Si richiama pertanto l’esigenza di mantenere alta l’attenzione sulle vicende da cui scaturisce l’individuazione della governance degli istituti e quindi la loro strategia, anche nei riguardi del nostro Paese.

Non deve essere d’altra parte trascurata la specificità del tessuto produttivo italiano, che richiede un’adeguata presenza sul territorio degli istituti bancari, tradizionalmente capaci di assicurare una importante prossimità ai cittadini e alle piccole e medie imprese che rappresentano una ricchezza riconosciuta del nostro sistema.

Con specifico riferimento all’operazione avente ad oggetto l’acquisizione di Borsa Italiana S.p.A. – richiamando quando già esposto nel capitolo 5.1 – si evidenzia che, nel corso delle audizioni del Comitato, è emersa l’esigenza di assicurare un’azione di sistema volta a garantire il rientro in una sfera di controllo nazionale dell’infrastruttura finanziaria del mercato borsistico italiano.

L’intervento su Borsa Italiana S.p.A. – che nell’ambito degli accordi conclusi con Euronext, a esito dell’operazione Cassa Depositi e Prestiti rappresenterà il maggiore azionista della combined entity a pari merito con la Cassa francese – è in grado di ottenere notevoli sinergie funzionali a rendere Piazza Affari un mercato di capitali competitivo rispetto alle altre piazze finanziarie. Inoltre, tale soluzione consentirà di integrare l’infrastruttura del mercato finanziario nazionale all’interno di una realtà pan-europea che aumenterà la liquidità della nostra Borsa e la visibilità degli emittenti italiani.

Ciò premesso, si deve comunque segnalare che il Parlamento non è stato adeguatamente informato di tale rilevante operazione. Inoltre, anche a seguito dell’approfondimento svolto dal Comitato, non risultano evidenti le ragioni alla base della scelta verso la soluzione Euronext (sia pure con la partecipazione di CDP e la presenza di Intesa Sanpaolo), rispetto alle altre offerte presentate, in apparenza potenzialmente competitive sotto l’aspetto economico.

In particolare, se la scelta di escludere Swiss Exchange è stata motivata con la non appartenenza di tale impresa alla UE – situazione che peraltro non ha condizionato la decisione della Spagna di cedere la propria Borsa proprio al gruppo Swiss Exchange, per le particolari competenze che esso può vantare nel settore – la preferenza per il gruppo francese rispetto a quello tedesco di Deutsche Börse meriterebbe a sua volta una serie di motivazioni e argomentazioni che allo stato non si rinvengono.

Il Comitato, infine, registra una crescente e pianificata presenza di operatori economici e finanziari di origine francese nel nostro tessuto economico, bancario, assicurativo e finanziario, nonché forti interrelazioni tra soggetti industriali ed economico-finanziari italiani e gli anzidetti operatori, e non può non far rilevare una possibile preoccupazione in merito alla circostanza che tale aspetto, in via ipotetica, possa anche determinare strategie, azioni e atteggiamenti non sempre in linea con le esigenze economiche nazionali.

In questo quadro, desta preoccupazione la strategia di UniCredit, che, mediante possibili operazioni di fusione con soggetti esteri (tra i quali Commerzbank, ovvero le francesi Crédit Agricole e Société Générale), sembrerebbe voler costituire una sub-holding, in cui confluirebbero anche le risorse acquisite tramite la raccolta di risparmio in Italia.

Non va inoltre sottovalutata l’operazione che riguarda MPS, in relazione alla quale è stato recentemente emanato il decreto del Presidente del Consiglio per la cessione dei crediti deteriorati, che prelude ad una cessione delle quote detenute dal Ministero dell’economia, e a una vendita dell’istituto a soggetti privati. Tra i possibili acquirenti, figura proprio UniCredit, la cui policy, come si è detto, desta perplessità sotto il profilo del perseguimento degli interessi nazionali.

Anche altre operazioni, sempre connesse all’attivismo del partner francese, a parere del Comitato, devono essere monitorate con attenzione. In particolare, come già si è detto nel capitolo 5.4, l’aumento di capitale di Delfin in Mediobanca potrebbe modificarne l’assetto societario, con conseguenze per il nostro principale istituto di assicurazioni, Generali, che, come è noto, detiene un considerevole pacchetto di titoli di Stato.

7.4. Crediti deteriorati e sofferenze bancarie

Il Comitato ritiene inoltre di segnalare le criticità del quadro normativo europeo sul tema delle sofferenze bancarie. In particolare, è emersa nel corso di alcune audizioni, come già accennato in precedenza, forte preoccupazione per gli effetti del Calendar provisioning, il rigido sistema di valutazione dei crediti adottato nel 2018 dalla BCE su iniziativa della Germania, che sta producendo effetti negativi soprattutto sulle banche dei Paesi del Sud Europa, sebbene anche quelle tedesche si trovino in una fase non performante. Giova evidenziare, infatti, che in base alle regole europee le banche sono tenute a svalutare (più che a recuperare) i crediti deteriorati secondo una tempistica stringente.

Come è stato segnalato nel corso di alcune audizioni, le norme introdotte dalla BCE per disciplinare il trattamento di NPL e UTP, imponendone una progressiva svalutazione (fino al 100 per cento in 3 anni), sono destinate, se non opportunamente ridefinite, a determinare gravi e pesanti ripercussioni sugli istituti bancari italiani, con ovvie ricadute sul sistema economico e sociale.

Tali conseguenze si presentano particolarmente penalizzanti soprattutto in una fase di crisi economica come quella che caratterizza il periodo post-Covid.

In aggiunta, le nuove norme europee sono destinate ad avere un impatto diretto sulle banche e sulla loro stabilità: imporrebbero, infatti, di effettuare corpose svalutazioni anche di crediti classificati come inadempienze probabili e non come deteriorati. Ciò potrebbe, quindi, erodere il patrimonio delle banche che dovrebbero essere, poi, ricapitalizzate.

Pur riconoscendo la necessità di prevedere regole idonee a garantire l’azzeramento dei crediti in sofferenza, occorre rilevare che la normativa nota come Calendar provisioning è nata nel 2018, in un momento di ripresa economica, ben diverso da quello attuale, in cui le economie di quasi tutti i Paesi dell’Eurozona hanno gravemente sofferto a causa della pandemia.

Ad avviso del Comitato, occorre quindi un ripensamento di tali regole, che appaiono eccessivamente rigorose e che comportano una sostanziale svalutazione del portafoglio degli istituti bancari, nel senso non solo di una ulteriore moratoria sui crediti, ma di una valutazione ‘sistemica’, e quindi non dettata dall’emergenza. In una crisi generale come quella attuale, il mantenimento di questi standard molto rigidi appare infatti quanto meno incongruo. Ad esempio, considerare crediti garantiti solo quelli connessi a un immobile ipotecato sembra penalizzare in modo eccessivo tutti gli altri crediti, che abbiano a sostegno altri tipi di garanzie. È inoltre importante che la BCE, nell’esercizio delle sue ispezioni, non imponga classificazioni dei crediti troppo severe, che appesantiscono ulteriormente gli oneri a carico degli istituti bancari.

In generale, il sistema della Vigilanza unica, che tende ad applicare standard analoghi sia agli istituti bancari c.d. ‘significativi’ (cioè aventi un attivo superiore a 30 miliardi di euro) sia a quelli less significant, appare in contrasto con i principi di proporzionalità, ragionevolezza e sussidiarietà, richiamati nel capitolo 4.3. Pertanto si ritiene opportuna una riconsiderazione di tale sistema, anche alla luce delle difficoltà derivanti dalla crisi economica globale, aggravata anche dall’emergenza sanitaria.

È infatti di tutta evidenza l’esigenza di assicurare credito alle imprese, intervenendo a monte affinché le regole imposte dalla UE non risultino eccessivamente penalizzanti per la nostra economia, e semplificando, a valle, le relative procedure.

Il Comitato ritiene, ad esempio, che importanti correttivi potrebbero essere introdotti – almeno con riferimento alla situazione dei crediti deteriorati pregressi, cioè maturati fino al 2018 – anche con interventi legislativi a livello nazionale, volti a individuare strumenti di tutela non solo del patrimonio bancario, ma soprattutto della situazione di esposizione debitoria dei numerosi cittadini e delle imprese che sono attualmente inseriti nella Centrale Rischi, e come tali impossibilitati ad accedere a nuovi crediti.

Tale esigenza si rivela tanto più rilevante in relazione agli effetti negativi della carenza di liquidità, tra i quali va segnalato l’aggravarsi, in molte zone del Paese, del fenomeno dell’usura, che rappresenta non solo un problema di tipo economico, ma altresì una vera e propria piaga sociale, che richiede una forte e organica azione delle istituzioni.

In questa ottica, si richiama l’attenzione sulle gestioni bancarie minori, che, in conseguenza della riforma del 2016, e delle citate regole europee in materia di controlli, vengono in sostanza sottoposte a tre livelli di vigilanza: quella della capogruppo, quella della Banca d’Italia e quella della BCE. Questo sistema di controlli, particolar mente pervasivi ha fatto venir meno il principio mutualistico, su cui si fondava il credito cooperativo. Di conseguenza, la sua funzione sociale e il ruolo di finanza « di soccorso », che esso ha svolto, ad esempio, durante la crisi economica del 2008, si è andato progressivamente depauperando, a danno del tessuto economico locale, e in particolare delle piccole e medie imprese, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema Paese.

Sarebbe pertanto opportuna una riflessione su possibili correttivi da apportare alla predetta normativa nazionale, oltre che su una più adeguata attenzione alle regole europee, la cui applicazione già rappresenta, come si è detto, un fattore di forte ed immediata criticità.

7.5. L’evoluzione tecnologica nel comparto bancario e assicurativo 

Le sfide che il comparto bancario-assicurativo-finanziario ha di fronte nei prossimi anni sono di carattere strutturale ed epocale. E si articolano su due livelli, essenzialmente.

Il primo è costituito dalla rivoluzione tecnologica. L’impatto delle nuove tecnologie sul settore finanziario si inserisce nel contesto di un ampio e accelerato processo di digitalizzazione dei consumi e dei sistemi produttivi, che coinvolge l’intera economia. Oggi con il neologismo « fintech » ci si riferisce alle iniziative tecnologiche nell’offerta dei servizi finanziari. L’impatto della tecnologia sul comparto avrà un duplice effetto. Da un lato, la digitalizzazione e il ricorso a tecniche quali l’intelligenza artificiale e l’uso dei big data consentono agli intermediari di ridurre i costi e di migliorare la qualità dei servizi offerti, salvaguardando la riservatezza dei dati personali dei clienti. Al tempo stesso, la tecnologia abbatte le tradizionali barriere all’ingresso nei mercati del credito e dei servizi finanziari: le imprese fintech offrono già oggi servizi a costi contenuti grazie all’intenso utilizzo di tecnologia. È facile prevedere che l’impatto del 5G provocherà una fortissima accelerazione in questo senso, perché i Cloud, l’Intelligenza Artificiale e il nuovo standard di telefonia mobile svolgeranno un ruolo chiave. La capacità di trasferire molti più dati in tempo reale avrà un impatto in diversi ambiti del settore, e le banche dovranno ripensare il potenziale di coinvolgi mento del cliente e il modo con cui gestiranno i milioni di pagamenti generati automaticamente dalle macchine.

L’effetto finale sulla struttura dell’offerta dei servizi finanziari non è facile da prevedere, ma un impatto è sicuro (anche in termini di gestione delle eccedenze di unità di personale e di riorientamento dei profili interni agli organici). Le banche dovranno realizzare ingenti investimenti in tecnologia per competere tra di loro, e con i nuovi intermediari che stanno emergendo. La loro sopravvivenza sarà legata a questo.

Inoltre, l’articolazione del sistema finanziario italiano e globale muterà radicalmente nel prossimo decennio, con l’ingresso di muovi operatori. Già oggi, nei mercati dove la digitalizzazione del commercio è più sviluppata, i maggiori operatori fintech sono le aziende tecnologiche già citate in precedenza: Apple, Google, Amazon, Face book negli Stati Uniti d’America; AliBaba e Tencent in Cina.

Sullo sfondo, poi, vi sono i temi posti dall’evoluzione della normativa e dall’ulteriore fabbisogno di capitale previsto per le banche sistemicamente rilevanti dagli accordi di Basilea 3, che hanno innalzato i requisiti patrimoniali, introdotto un tetto al grado di leva finanziaria e stabilito requisiti di liquidità. Un insieme di regole che, se renderà le attività delle banche meno rischiose che in passato, al tempo stesso tenderà a comprimere la redditività bancaria e lo sviluppo del sistema creditizio, con possibili riflessi negativi sull’offerta dei finanziamenti all’economia reale.

Per rimanere competitive in questo nuovo assetto del sistema finanziario, basato sul maggiore sviluppo e sulla maggiore articola zione dei mercati, le banche dovranno continuare a ridurre i costi, migliorare l’efficienza operativa, ampliare la gamma dei servizi offerti. E per questo saranno fondamentali gli investimenti in capitale tecnologico e umano.

È facile immaginare, quindi, quali possano essere le conseguenze di una eventuale delocalizzazione extranazionale di players attuali del settore bancario o assicurativo, dentro tale cornice.

Conclusioni 

Il lavoro svolto in questi mesi dal Comitato, che su questi temi ha riscontrato una unanime condivisione tra tutti i suoi componenti, ha inteso porre in evidenza processi che sarebbero probabilmente rimasti privi di visibilità, e che invece rivestono carattere strategico per l’economia e quindi per la sicurezza del Paese. Alcune scelte, infatti, affidate agli operatori del settore, senza la necessaria attenzione da parte dell’opinione pubblica, se non quella del giornalismo specialistico, devono essere restituite alla politica e al dibattito parlamentare.

Anche alla luce di tali considerazioni, il Comitato ritiene necessario proseguire nei prossimi mesi la sua attività di monitoraggio delle operazioni di acquisizione e accorpamento che coinvolgano i principali istituti bancari e assicurativi del Paese, nella convinzione che la tutela della sicurezza e degli interessi nazionali, nell’attuale contesto globale, si debba perseguire anche sul terreno delle strategie economiche e finanziarie.

Il perseguimento di questi obiettivi non può prescindere, ad avviso del Comitato, da un più consistente impegno delle istituzioni nazionali nelle sedi europee, ove vengono assunte decisioni sempre più rilevanti per gli assetti economico-finanziari del Paese, non solo sotto il profilo normativo ma altresì per quanto riguarda le strategie complessive.

Contestualmente, considerato il riassetto generale degli equilibri economici mondiali, connesso anche all’emergenza sanitaria tuttora in atto, si ritiene opportuna una riflessione sul ruolo più incisivo che le istituzioni dovrebbero assumere nel coordinamento e nel controllo dei processi e delle strategie in campo economico e finanziario.

Da ultimo, il Comitato nel corso delle audizioni ha rilevato elementi che inducono a preoccupazioni in ordine a possibili strategie di penetrazione di operatori di nazionalità straniera nell’ambito di settori di rilevanza strategica per la sicurezza del Paese (telecomunicazioni, aerospazio, industria della difesa, energia), tali da meritare la prosecuzione di una specifica attività di approfondimento, analogamente a quella effettuata nei confronti del settore bancario, finanziario ed assicurativo.

ADDENDUM 1 

La penetrazione di capitali cinesi nel tessuto economico italiano

La penetrazione di capitali provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese in Italia (includendo anche gli investimenti provenienti da Hong Kong e Macao, regioni amministrative speciali sottoposte al controllo cinese) ha mostrato tassi di crescita costanti nel tempo.

Compiendo una analisi sui dati a disposizione forniti dalla Banca d’Italia al dicembre 2019, si possono preliminarmente osservare due fenomeni:

1) aumento dei flussi di investimenti diretti esteri provenienti dalla Cina;

2) aumento della percentuale di proventi finanziari, derivanti da imprese italiane a controllo cinese che l’azionista di riferimento decide di reinvestire nel nostro Paese, invece che reinviare in Cina.

In merito al primo punto, possono essere considerati i dati forniti da Banca d’Italia circa i flussi di investimento diretti esteri provenienti dalla Cina in costante incremento nel tempo, da 573 milioni di euro nel 2015 a 4,9 miliardi di euro nel 2018.

Contestualmente, in merito al secondo punto i dati di Banca d’Italia mostrano una sensibile diminuzione dei flussi di rimesse verso la Cina (da 237,7 milioni del 2016 a 1,4 milioni nel 2020).

Tuttavia, tale dato deve essere interpretato come meramente indicativo, in quanto i valori di flussi di rimesse tracciati e resi disponibili da Banca d’Italia si discostano notevolmente dai valori reali. Sovente, infatti, le rimesse inviate dall’Italia verso Paesi terzi sono in buona parte frutto di economia sommersa (attività lavorativa in nero ovvero proventi non dichiarati al fisco), ovvero di attività criminali e successivo riciclaggio di denaro contante.

In ogni caso, è facilmente immaginabile che nel tempo gli investitori cinesi si stiano radicando sempre più nel tessuto produttivo nazionale, decidendo di reinvestire in Italia i proventi delle proprie attività.

Per quanto concerne gli investimenti di capitale cinese in aziende italiane, è necessario differenziare tra:

1) investimenti in aziende fondate in Italia da soci italiani e che hanno visto successivamente l’ingresso di soci cinesi nel capitale azionario con partecipazioni di rilievo (di controllo ovvero che permettessero di poter intervenire negli assetti di governance e di controllo societario). Si tratta, in questo caso, di investimenti cosid detti « brownfield », ovvero frutto di riconversione;

2) investimenti in aziende fondate in Italia da cittadini o aziende di nazionalità cinese ovvero filiali di società cinesi. Si tratta in questo caso di investimenti « greenfield »;

3) investimenti finanziari in società italiane quotate, che, pur costituendo investimenti in quote di minoranza, tuttavia, considerata la parcellizzazione del capitale, permettono all’investitore di avere un peso negli assetti societari.

Per quanto concerne i primi due punti, a fine 2019 risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare Cinese e 135 con sede principale a Hong Kong, attraverso almeno un’impresa partecipata.

Le imprese italiane partecipate da tali gruppi sono in tutto 760 e la loro occupazione è di poco superiore a 43.700 unità, con un giro d’affari di oltre 25,2 miliardi di euro. In particolare, le 572 imprese italiane a partecipazione cinese occupano oltre 31.000 dipendenti, mentre il loro giro d’affari sfiora i 17,9 miliardi di euro. Le 188 imprese partecipate da multinazionali di Hong Kong occupano invece oltre 12.600 dipendenti e il relativo giro d’affari è pari a 7,35 miliardi di euro.

Per contestualizzare il peso delle imprese a partecipazione cinese sul totale delle partecipazioni straniere in Italia, si può ricordare che alla fine del 2017 le imprese a partecipazione cinese rappresentavano il 3 per cento di tutte le imprese italiane a partecipazione estera, mentre la loro incidenza con riferimento al numero dei dipendenti delle imprese partecipate era pari al 2,1 per cento. L’incidenza delle partecipazioni attribuibili ad Hong Kong era invece pari allo 0,8 per cento per entrambi gli indicatori.

Dal punto di vista settoriale, le attività delle imprese italiane a partecipazione cinese appaiono abbastanza diversificate, dividendosi quasi equamente tra i principali comparti.

Il maggior numero di imprese partecipate (150) si registra nel settore manifatturiero, che rappresenta però quasi i tre quarti del totale in termini di dipendenti (oltre 22.700).

Segue, a grande distanza, il comparto dei servizi, con oltre 4.500 dipendenti in 173 imprese partecipate. Si contano quindi 126 imprese commerciali, con quasi 3.300 dipendenti, mentre i rimanenti comparti (settori primari, costruzioni e utilities) contano in tutto poco più di 500 dipendenti in 142 imprese partecipate (per lo più nel settore della produzione di energia elettrica da fonte fotovoltaica).

Le acquisizioni avvengono, infatti, con sistematicità ad ogni livello, nei settori a più alto valore aggiunto o più strategici. Tra gli attori maggiormente coinvolti, si segnalano multinazionali come StateGrid e ChemChina.

La prima ha da diversi anni una significativa quota del 35 per cento nella finanziaria delle nostre reti energetiche elettriche – CDP Reti S.p.A. – che controlla Snam, Terna, Italgas.

ChemChina, invece, è detentrice della maggioranza (45 per cento) delle quote di Pirelli & C. S.p.A., società che opera, come noto, nel settore chimico-industriale come produttore di pneumatici per auto mobili, motociclette e biciclette, oltre a materassi e cuscini e rap presenta uno dei principali operatori mondiali nel settore degli pneumatici in termini di fatturato con presenza commerciale in oltre 160 nazioni. In tale società ChemChina esprime il presidente (mentre l’amministratore delegato risulta essere il rappresentante del secondo azionista, Camfin S.p.A., che detiene il 10,1 per cento dell’aziona riato).

Energia, reti, aziende ad alto potenziale strategico e innovative vedono una grande concentrazione di capitali cinesi. Il flusso si è recentemente interrotto con la pandemia da Coronavirus, ma ha in passato creato concentrazioni notevoli: la Shangai Electric Corpora tion ha comprato – già nel 2014 – il 40 per cento di Ansaldo Energia S.p.A. (con sede a Genova), mentre quote di ENI, TIM, ENEL e Prysmian sono sotto il controllo della People’s Bank of China, la banca centrale della Repubblica Popolare Cinese.

Nel comparto manifatturiero, il maggior numero di imprese a partecipazione cinese si riscontra nel settore delle macchine e apparecchiature meccaniche (ben 57 imprese partecipate, con oltre 8.000 dipendenti). Seguono, per numero di dipendenti delle imprese partecipate, il settore dei prodotti in gomma e plastica (oltre 3.000, grazie soprattutto alle attività industriali del gruppo Pirelli) e quello dei prodotti farmaceutici, elettronici e ottici (2.360 dipendenti).

Superano la soglia dei 1.000 dipendenti anche la metallurgia, gli altri mezzi di trasporto, i prodotti di metallo, l’automotive e i prodotti elettrici, questi ultimi grazie all’acquisizione di Candy Hoover Group S.r.l da parte del gruppo Haier, avvenuta nel 2019, e del gruppo di cantieristica nautica Ferretti, leader mondiale nella progettazione, costruzione e vendita di yacht di lusso.

Un comportamento non dissimile da quello delle altre multinazionali presenti in Italia si ha anche con riferimento alla distribuzione territoriale delle imprese partecipate cinesi, concentrate per i 4/5 del totale nelle regioni settentrionali. Spicca la Lombardia, che ospita 258 imprese a capitale cinese, pari a oltre il 46 per cento del totale. Seguono il Lazio con 68 imprese, l’Emilia-Romagna con 54, Piemonte e Veneto con 40 ciascuna. La Lombardia guida anche la graduatoria relativa al numero di dipendenti (quasi 11.700 pari al 45 per cento del totale), seguita da Emilia-Romagna (oltre 4.300), Piemonte (circa 4.200), Veneto (quasi 3.900) e Liguria (poco meno di 3.000). L’incidenza di queste cinque regioni supera l’87 per cento.

Riguardo alle modalità di ingresso, infine, si rileva come circa la metà delle imprese a partecipazione cinese censite dalla banca dati siano state oggetto di investimento greenfield. Negli altri casi, l’investimento cinese ha invece avuto luogo tramite l’acquisizione di attività preesistenti.

Gli investimenti greenfield sono nettamente prevalenti nel caso di attività commerciali o di servizio, mentre nel caso di attività mani fatturiere l’ingresso delle imprese cinesi sul mercato italiano avviene sempre più spesso attraverso l’acquisizione di attività preesistenti (talvolta indirettamente, attraverso l’acquisizione di un gruppo estero con attività produttive in Italia), ancora una volta in analogia con il comportamento delle altre multinazionali presenti in Italia.

Per quanto riguarda gli investimenti di società cinesi in imprese quotate in Italia di grandi dimensioni, i Cinesi detengono – come detto – la maggioranza di Pirelli & C. S.p.A., ma hanno quote di minoranza in ENI, Intesa SanPaolo, Prysmian, Saipem, Moncler, Salvatore Ferragamo, Prima Industrie.

Per completezza pare utile evidenziare che quanto sopra esposto riguarda esclusivamente gli investimenti diretti realizzati da soggetti cinesi in Italia. Tuttavia, nell’ambito degli investimenti di capitali cinesi nel nostro Paese, non si possono trascurare gli investimenti effettuati attraverso fondi di investimento, società di gestione del risparmio, società fiduciarie italiane ed estere o società finanziarie, le quali in qualche modo schermano l’identificazione del titolare effettivo degli investimenti.

Si pensi che il fondo sovrano cinese China Investment Corporation (CIC) realizza i propri investimenti in Europa prevalentemente attraverso alcune catene societarie di diritto lussemburghese. In tali casi è difficile intercettare l’origine dei fondi e ricondurre l’azionariato delle aziende italiane oggetto di investimenti a soggetti cinesi.

Infine, pare opportuno registrare che sul territorio italiano operano – secondo i dati del Registro delle Imprese – 50.797 imprenditori nati nella Repubblica Popolare Cinese.

In base ai dati raccolti, quasi 20.000 imprenditori cinesi sono attivi nel commercio e 17.000 nel manifatturiero. Ci sono poi oltre 7.000 imprese dell’hotellerie e ristorazione, e oltre 4.000 nei servizi alla persona. E se il manifatturiero si concentra in Toscana (7.485 imprese su 17.572 in Italia, pari al 42,5 per cento del totale), la Lombardia è prima per presenza di ristoratori e baristi (2.564 imprenditori su 7.131, pari al 36 per cento nazionale) e di fornitori di prestazioni alla persona (1.908 su 4.775, il 40 per cento). I settori dove la presenza cinese è forte sono senza dubbio il commercio, i venditori-ambulanti, il manifatturiero e la ristorazione-bar.

Nella sola Lombardia, che conta complessivamente oltre 10.000 imprese cinesi, alle spalle di Milano si collocano per numero di imprenditori attivi le province di Brescia (1.019), Mantova (757), Bergamo (684), Varese (573) e Monza Brianza (535). Per tasso di crescita negli ultimi sei anni domina in Lombardia la provincia di Monza Brianza che segna un +80 per cento. Segue Lecco (+68 per cento), Lodi (+60 per cento) e Como (+57 per cento). Milano, dove la comunità cinese è tradizionalmente molto presente, negli ultimi sei anni ha visto aumentare le imprese cinesi del 38 per cento.

A livello regionale, in base agli ultimi dati disponibili, le imprese cinesi in Italia si concentrano soprattutto al Centro-Nord, in parti colare in Toscana, Lombardia e nel Veneto. Interessante notare come negli ultimi anni si sia registrato un boom in Campania, dove le imprese cinesi sono cresciute del 46 per cento. L’imprenditoria straniera in Italia nel 2017 è stata pari all’8,8 per cento del totale, mentre nel 2009 era soltanto pari al 6,2 per cento, dimostrando in tale contesto una crescita costante.

Le attività di commercio al dettaglio sopra citate hanno, ovvia mente, impatti positivi anche nel settore degli immobili commerciali, che beneficiano di tale presenza capillare sul territorio italiano e, in alcune grandi città, dove gli esercizi commerciali dei centri storici hanno preferito spostarsi verso le aree periferiche e i grandi centri commerciali, gli imprenditori cinesi hanno occupato gli spazi lasciati vuoti dalle attività al dettaglio gestite da imprenditori italiani.

ADDENDUM 2 

La penetrazione di capitali russi nel tessuto economico italiano

Per quanto riguarda gli investimenti della Russia in Italia, si tratta di cifre decisamente inferiori rispetto a quelle cinesi, sia in termini di numero di imprese italiane controllate da soggetti russi, sia in termini di ammontare di risorse investite nel tessuto produttivo del nostro Paese.

Nel caso degli investimenti diretti esteri provenienti dalla Russia verso l’Italia, secondo i dati della Banca d’Italia c’è stato un calo nel corso del tempo, e gli stessi sono passati da 2,2 miliardi di euro del 2015 a 1,5 miliardi di euro del 2018 (con un minimo di 454 milioni di euro nel 2016). Tale dato si pone in contrapposizione alla crescita dei flussi cinesi, illustrata in precedenza.

La strategia implementata da Cina e Russia nella politica degli investimenti è differente: la Cina investe in tutti i settori, cerca aziende attrattive dal punto di vista delle tecnologie e delle tematiche produttive, dei mercati dei servizi o dell’appeal del brand senza una focalizzazione su determinati settori, la Russia, invece, investe so prattutto nel settore delle infrastrutture o in settori che abbiano un legame con la produzione nazionale.

Un esempio su tutti è l’investimento del fondo sovrano russo Russian Direct Investment Fund (RDIF) in Barilla S.p.A., condizionato all’apertura di uno stabilimento produttivo in Russia, Paese nel quale la Barilla da decenni ormai si approvvigiona di grano e cereali.

In effetti, recentemente il RDIF ha stanziato circa 300 milioni di euro per sviluppare ulteriori progetti di investimento in Italia, attraverso partnership con importanti istituti di sviluppo italiani (Cassa Depositi e Prestiti e FSI), implementando una serie di significativi progetti congiunti in Russia in settori tradizionali e maturi, tra cui infrastrutture di trasporto (insieme ad ANAS S.p.A.), industria dell’energia elettrica (insieme a ENEL S.p.A.), allevamento (insieme ad Inalca) e industria alimentare (insieme a Barilla S.p.A.).

La postura del Governo italiano sembra finora quella di favorire lo sviluppo di tali progetti, anche attraverso il mantenimento di buoni rapporti diplomatici con i vertici di RDIF, tenuto conto che recen temente l’amministratore delegato del Russian Direct Investment Fund (RDIF), il fondo sovrano della Federazione Russa, è stato insignito dell’Ordine della Stella d’Italia, onorificenza nazionale della Repub blica Italiana, anche per il supporto fornito dalla Russia all’Italia nel picco del Covid-19.

La Russia, infatti, investe in Italia attraverso RDIF oppure attraverso le filiali di grandi aziende russe (ex monopoliste di Stato), quali ad esempio, Gazprom, Lukoil e Rosneft, prevalentemente attraverso la stipula di progetti congiunti con azionisti italiani e ancor meglio se controparti istituzionali, essendo carente – in tal senso – la cultura imprenditoriale che caratterizza invece la comunità cinese in Italia.

Anche per la Russia, come nel caso della Cina, non è possibile intercettare gli investimenti realizzati da soggetti russi attraverso controparti finanziarie quali fondi di investimento, società di gestione del risparmio, società fiduciarie italiane ed estere o società finanziarie.

Osservando il portafoglio di investimento del Russian Direct Investment Fund si notano prevalenti gli investimenti in aziende nazionali russe o in filiali russe di aziende russe estere, in contrap posizione alla strategia di espansione e diversificazione all’estero del fondo sovrano cinese (China Investment Corporation-CIC).

Anche le sanzioni imposte nel febbraio 2014 dall’Unione europea a seguito della crisi tra Russia e Ucraina sulla Crimea potrebbero aver in qualche modo anemizzato la crescita degli investimenti russi in Italia, con ritorsioni da parte russa verso gli investimenti in aziende europee. In tal senso, emblematico risulta essere il caso della società petrolifera russa Rosneft, che ha ceduto le quote di capitale acquistate nell’azienda italiana Saras.

Per quanto riguarda le piccole attività commerciali, infine, non è possibile effettuare una comparazione tra il tasso di penetrazione di imprenditori cinesi in Italia e di imprenditori russi, sia in termini di quantità di attività imprenditoriali stabilite sul territorio italiano sia in termini di fatturato.

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