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Autostrade (Aspi), cosa dicono davvero i patti fra Cdp, Blackstone e Macquarie

Che cosa prevedono i patti parasociali di Hra (posseduta da Cdp, Blackstone e Macquarie) che controlla Autostrade per l'Italia (Aspi). L'analisi di Giuseppe Liturri

Che cosa prevedono i patti parasociali di Hra (posseduta da Cdp, Blackstone e Macquarie) che controlla Autostrade per l’Italia (Aspi). L’analisi di Giuseppe Liturri

 

Da qualche giorno è tornata d’attualità la controversa operazione di cessione del 88% delle azioni di Autostrade per l’Italia (Aspi), da parte di Atlantia della famiglia Benetton a favore di una cordata societaria (Hra Spa) che vede Cassa Depositi e Prestiti (per mezzo della sua controllata Cdp Equity Spa) al 51% e due fondi stranieri (Blackstone e Macquarie) al 24,5% ciascuno.

È stato Giorgio Meletti sul quotidiano Domani, ripreso poi da Marco Palombi sul Fatto Quotidiano, a portare alla luce  il contenuto dei patti parasociali stipulati tra tutti i soci di Hra – finalizzati a definire le regole di governo societario da applicarsi sia a livello della capogruppo Hra che della controllata Aspi – per denunciarne lo sbilanciamento a favore dei fondi stranieri.

Quei patti sono stati sottoscritti il 3 maggio 2022, due giorni prima del trasferimento delle azioni di Aspi a favore di Hra e sono, secondo Meletti, “il patto segreto che autorizza i fondi privati a spolpare Autostrade” o, come ha titolato il Fatto, il patto che consente ai due fondi esteri di “spennare” Autostrade. Con accusa al Tesoro di aver mentito sostenendo che “con il 51% lo Stato comanda”.

Sicuramente apprezzabile il tentativo di tenere viva l’attenzione su una vicenda – partita con l’iniziale concessione a favore dei Benetton, passata attraverso la tragedia del ponte Morandi e terminata con la vendita del maggio scorso – che presenta tuttora numerosi punti oscuri o passaggi in cui l’interesse pubblico non appare essere stato difeso nel migliore dei modi. Tuttavia, ci permettiamo di esprimere non poche perplessità sulla fondatezza di alcune accuse.

Accuse che si articolano lungo due direttrici:

  • Una politica di dividendi molto favorevole agli azionisti, che prevede che “Hra e le entità rientranti nel Gruppo distribuiscano ai rispettivi soci, su base semestrale, la cassa disponibile risultante dal bilancio di esercizio”.
  • Necessità di maggioranze rafforzate per deliberare in assemblea dei soci ed in consiglio di amministrazione che, di fatto, attribuiscono ai due soci di minoranza il diritto di partecipare in modo decisivo a scelte particolarmente qualificanti (le cosiddette “materie riservate assembleari” e “materie riservate consiliari”) per la gestione ed il futuro della capogruppo e della controllata Aspi. Per le votazioni su tali materie è previsto un quorum qualificato che richiede l’obbligatorio assenso dei rappresentanti dei due fondi esteri. Depotenziando, di fatto, il controllo dello Stato, via CDP, sul gruppo.

Prima di entrare nel merito dei due punti, giova ricordare un punto che l’autore meritoriamente sottolinea. Sostenere che Cdp è esterna al perimetro della Pubblica Amministrazione ai fini Eurostat  – come ha fatto il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera – è una foglia di fico che non regge quando si deve dare conto dell’operato della medesima società. CDP è posseduta all’83% dal Mef che deve comunque delle risposte, anche se CDP è impegnata  in “attività imprenditoriali, nel rispetto del principio dell’investitore privato operante in un’economia di mercato”. Affermare, come ha fatto Rivera, che non c’è stato “alcun esborso da parte dello Stato” è una forzatura che basa su elementi formali ed è poco rispettosa della sostanza che vede comunque coinvolto denaro dei contribuenti. Trincerarsi dietro una mera convenzione contabile, significa voler eludere il problema.

Ma allora lo Stato ha fatto un cattivo affare, comprando Aspi in società con i fondi esteri?

Per come è cominciata e per come si è giunti alla conclusione della vicenda, probabilmente si, ma l’accusa ai fondi stranieri di voler spolpare la cassa e controllare di fatto ASPI, non regge per due semplici motivi. Il primo, perfino banale, è che svuotare la cassa (quando c’è!) a fine anno avverrebbe ovviamente a favore di tutti i soci. Quindi se c’è qualcuno che sta “spennando” Aspi è, soprattutto, Cdp Equity (e quindi lo Stato) al 51%, seguita dai due fondi al 24,5% ciascuno. Diverso, e davvero scandaloso, sarebbe stato se i tre soci avessero avuto diritto ai dividendi in misura non proporzionale rispetto al capitale. Ma così non è. Ed allora dov’è lo scandalo, se banchettano tutti in proporzione?

Il secondo rilievo è più tecnico e discende dalla lettura completa dell’articolo 6.5.1 dei patti parasociali: “Quale regola generale, le Parti si sono impegnate a fare in modo che HRA e le entità rientranti nel Gruppo distribuiscano ai rispettivi soci, su base semestrale, la cassa disponibile risultante dal bilancio di esercizio, conformemente alle restrizioni discendenti dalla normativa applicabile nonché dalle concessioni e dalle relative previsioni regolamentari, nella misura applicabile, ed in ossequio alle previsioni statutarie di HRA e/o ASPI e alla policy sulla struttura finanziaria.”

Le parti sottolineate ci dicono tre cose:

  • Siamo in presenza di una “regola generale” e quindi non tassativa ma anzi suscettibile di deroghe.
  • La “cassa disponibile” (“free cash flow” o FCF) non significa affatto – come noto agli addetti ai lavori – che “ogni euro di utile diventerà automaticamente un euro di dividendo”. Infatti si intende che la cassa disponibile è solo quella residuale dopo aver finanziato gli investimenti. Nella prassi aziendalistica le parole hanno questo senso. Insomma, è stata prevista una cosa abbastanza normale, soprattutto in aziende con flussi di cassa molto regolari operanti in mercati protetti: con l’utile si finanziano gli investimenti e ciò che resta si distribuisce ai soci.
  • Infine, le norme bisogna leggerle tutte, perché ciò deve avvenire “conformemente alle restrizioni…”. Cioè ci sono ben determinati vincoli da rispettare legati alla concessione di cui beneficia Aspi ed a tutti i regolamenti che disciplinano una materia assai complessa. Nessun Far West ed assalto alla diligenza.

L’accusa di aver concesso a Blackstone e Macquarie “il controllo di fatto della concessionaria autostradale” per la presenza di quorum qualificati è altrettanto discutibile.

Cosa si voleva? Che chi ha investito miliardi di euro facesse funzioni di raccattapalle a bordo campo, senza toccare palla in campo? È prassi normale che il governo di una società con una maggioranza risicata del 51% – pur conferendo il controllo giuridico a Cdp – stabilisca robusti contrappesi a favore di chi ha investito il 49%, che non può certo essere equiparato ad un socio con percentuali da zero virgola. Le decisioni di consiglio qualificanti – finanziamenti, investimenti, acquisto o vendita di azioni Aspi, ecc… – devono quindi vedere il voto di almeno un consigliere designato da ciascuno dei due fondi. Stesso meccanismo per il quorum dell’assemblea dei soci e per le cariche sociali, dove Cdp esprime Presidente ed amministratore delegato, i fondi esprimono vice presidente, Cfo e presidente del collegio sindacale.

Quel tipo di patti parasociali sono la normale prassi in Italia e nel mondo, soprattutto da parte dei fondi di private equity, perché sono una ragionevole tutela cercata ed ottenuta da chi deve difendere il proprio investimento e pretende che le decisioni strategiche debbano necessariamente essere condivise, almeno quando si possiede il 49%. Chi ha la maggioranza del 51% in nessuna società ha poteri assoluti.

Se questo assetto impedisce allo Stato un pieno controllo della società, Cdp avrebbe potuto comprare il 100% e così evitare ogni negoziazione e condizionamento, arrivando però alla paradossale conclusione di mettere interamente a carico delle casse pubbliche il “regalo” ai Benetton. Certo, comprendiamo il disappunto derivante da una relativa ampiezza delle “materie riservate”. Forse sarebbe stato possibile negoziare meglio e restringere quel perimetro, ma appaiono dettagli rispetto alla sostanza dei diritti comunque da concedere ai soci di minoranza. Basta osservare qualsiasi investimento azionario di fondi di private equity per trovare simili meccanismi di governo societario.

In ogni caso, forse a Dario Scannapieco ed alla sua squadra, anziché impegnarsi in una difficile operazione di rinegoziazione, conviene attendere la scadenza del patto a maggio 2025.

Purtroppo i buoi sono scappati durante i poco meno di 4 anni da agosto 2018 a maggio 2022 ed ora arrampicarsi sugli specchi serve solo ad aumentare i rimpianti.

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