Lavoratori sfruttati e gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Sono le accuse mosse contro Manifactures Dior, il ramo produttivo da del gruppo francese, ritenuto dalla Procura di Milano “incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo”.
LE INDAGINI
A partire da marzo 2024, i carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro (Nil) di Milano hanno accertato l’esistenza di 4 opifici nelle province di Milano, Monza e Brianza in cui sono stati identificati 32 lavoratori irregolari, di cui 7 in nero e 2 clandestini. L’inchiesta, riporta il Corriere della sera, assume che la produzione dei prodotti di pelletteria con marchio Dior fosse effettuata presso le società “Pelletterie Elisabetta Yang” e “New Leather srl” in provincia di Milano.
La produzione, si legge dalle agenzie di stampa, avveniva in “condizioni di sfruttamento” con paghe “sotto soglia”, “orario di lavoro non conforme” e “ambienti di lavoro insalubri” oltre a “gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro”. Uno degli operai sentiti nell’ambito dell’indagine ha raccontato agli inquirenti che “pur avendo famiglia a Milano in zona piazzale Loreto, dorme e mangia al piano superiore del laboratorio” della Pelletteria Yang.
La scoperta si inserisce in un quadro in cui le stesse irregolarità sono state riscontrate anche in altre case di moda. A gennaio era stata la volta della Alviero Martini Spa e ad aprile della Giorgio Armani Operations.
DIOR MANUFACTURES IN AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA
I militari del Nil di Milano hanno quindi dato esecuzione a un decreto di amministrazione giudiziaria emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano nei confronti di Manifactures Dior. Nell’inchiesta per presunto caporalato, coordinata dal pubblico ministero Paolo Storari, che ha chiesto l’emissione della misura, il ramo produttivo del gruppo è ritenuto “incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo” e di non aver messo in atto “misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative, ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici”.
Tuttavia, spiega il Corriere, “non si è nel campo del processo penale, ma nel settore delle misure di prevenzione: questa sorta di parziale ‘commissariamento’ […] viene infatti adottata quando si ritiene che, attraverso il libero esercizio della propria attività economica (pur se non illecita e pur se esercitata con modalità non illecite), a una impresa possa essere rimproverato, anche solo a titolo di rimproverabilità colposa per inerzia o cattiva organizzazione interna, d’aver agevolato l’attività di persone indagate per un catalogo di reati tra i quali (in questo caso) l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, cioè il reato di caporalato contestato invece ai titolari degli opifici cinesi trovati dai carabinieri nelle ispezioni in questi capannoni in provincia di Milano”.
UNA STORIA CHE SI RIPETE
Brand diverso, stessa storia. Per abbattere i costi e massimizzare i profitti di una borsa venduta in negozio a migliaia di euro, diverse aziende esternalizzano la produzione a una ditta appaltatrice, che però in realtà non è in grado di garantire la capacità produttiva, né in termini di qualità né di tempistiche, e quindi si rivolge a sua volta a opifici clandestini cinese. In questo caso, scrive il Corriere della sera, “il legame con Dior è sostanzialmente senza filtri che mascherino quella che era una produzione dislocata presso la fabbrica cinese direttamente da Manifactures Dior Srl, come attestano persino ‘i documenti di trasporto con i quali la società committente e quella appaltatrice si scambiano materiale di lavorazione e il relativo prodotto finito’, infine consegnato a magazzino di società toscane ricollegabili a Dior a Lugagnano Valdarno, Scandicci e Croce sull’Arno”.
“Tra le due società – precisa l’articolo – neanche un contratto d’appalto, ma solo un semplice documento chiamato Condizioni Generali di Acquisto, fatto firmare ai cinesi per accettazione, e base di un fatturato della pelletteria cinese verso Dior di oltre 750.000 euro nel 2023-2024, senza che risulti alcun controllo dal brand francese ad eccezione di un audit puramente formale-cartolare, accontentatosi di qualche pezzo di carta nel 2023”.
Anche in questo caso, scrive Agi, una borsa pagata da Dior 53 euro a un opificio viene poi venduta in negozio a 2.600 euro, con Manufactures Dior che nel 2022 ha fatturato 650 milioni di euro e conta 700 dipendenti.