Skip to content

dati sanitari trump

L’accordo Usa-Ue sui dazi tra teoria dei giochi e giochi non cooperativi

L'analisi di Giuseppe Capuano, professore di Economia internazionale all'Università di Salerno.

L’economia non è, notoriamente, una scienza esatta, ma su una cosa gli economisti di ogni epoca (da Smith a Ricardo a Keynes e altri) e di ogni scuola economica (dai neoclassici ai keynesiani ai monetaristi) sono concordi: “il commercio internazionale fa crescere l’economia e crea ricchezza per tutti i Paesi”. La “guerra dei dazi” va innaturalmente e colpevolmente contro questa convinzione. Speriamo che la saggezza dei politici mondiali porti a più miti consigli nell’interesse di tutti, anche se l’insegnamento che traiamo da ciò che è accaduto nei primi sette mesi del 2025 va in tutt’altra direzione e che oggi siamo solo all’inizio di un percorso ondulatorio che ci porterà fuori da una epoca iniziata nel 1985 con gli Accordi del Plaza, continuata con l’ingresso della Cina nel WTO e conclusasi con la Presidenza Trump con la fine del turbo-liberismo e della globalizzazione nel commercio internazionale e l’inizio di un periodo economico caratterizzato dal neo-protezionismo.

L’accordo di politica commerciale USA-Ue (così correttamente si dovrebbe chiamare evitando di personalizzare erroneamente la vicenda) di fine luglio 2025 ancora non “siglato” (ad oggi nulla è stato ratificato) può essere letto seguendo la “teoria dei giochi” di von Neumann e Morgenstern dove cooperando vincono tutti o seguendo la teoria dei  “giochi non cooperativi” di Nash dove vince solo il più forte in cui l’interesse personale è il motore principale dell’azione e dove la cooperazione non è possibile o conveniente.

A seconda se la lettura degli ultimi avvenimenti è prevalentemente tecnico-economica (come suggerirebbe la teoria dei giochi) o prevalentemente tecnico-politica (come suggerirebbe la teoria dei giochi non cooperativi) arriveremo a conclusioni diverse sulla sostenibilità e sulla convenienza reciproca dettata dell’accordo raggiunto (15% dei dazi generalizzati con molti distinguo e esenzioni) tra Usa e Ue.

Probabilmente la conclusione dell’accordo raggiunto in Scozia è un mix delle due tesi, anche se la la lettura tecnico-economica degli avvenimenti sembrerebbe più vicina alla realtà nella consapevolezza che senza cooperazione ci sarebbero solo perdenti, con conseguenze nefaste per l’economia occidentale e con un solo vincitore: la Cina. La seconda lettura segue una tesi prettamente tecnico-politico, e si presenta molto più debole concettualmente in quanto sembrerebbe condividere un approccio prevalentemente ideologico senza una via di uscita equilibrata tra le due sponde dell’Atlantico.

Un accordo fortemente condizionato dall’ampio surplus commerciale a favore dell’Ue (198,2 miliardi di euro nel 2024) relativamente alle merci esportate dall’Europa (531,6 miliardi di euro nel 2024) negli Usa. Una trattativa, quella vista in Scozia, tra un “venditore” (in primis Germania e Italia per volume di export negli USA) e un importante “compratore”. Dal lato dei servizi, in particolare quelli tecnologici, la situazione cambia (deficit Ue pari a 148 miliardi di euro) con la differenza, però, che in questo ambito gli USA sono praticamente dei monopolisti e dei contro-dazi o tasse imposte dall’Ue agli americani avrebbero ricadute proporzionali sui prezzi danneggiando fortemente i consumatori europei.

Un accordo che è figlio di un piano commerciale, quello del Presidente USA che, secondo il report firmato nel novembre 2024 da Stefhen Miran oggi presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, non si limita ai dazi (punto di partenza) ma contempla anche la svalutazione del dollaro e la riduzione dei tassi di interesse (punto di arrivo). Questi gli aspetti più generali dello scenario bilaterale USA-Ue.

Analizzando invece i dati relativi all’export negli USA dei singoli Paesi Ue, essi evidenziano che gli interessi dei Paesi membri dell’Ue sono profondamente diversi. Prendiamo il caso di Italia, Francia e Spagna, solo per citarne uno, ma potremmo fare altri esempi come quello dell’Irlanda per il settore dei servizi tecnologici (sede europea delle big-tech americane) o della Germania per il settore automobilistico.

Il valore delle esportazioni dell’Italia nel 2024 è stato di circa 65 miliardi di euro, un valore molto superiore a quello di Spagna (circa 28 miliardi di euro) e della Francia (circa 47 miliardi di euro). Per questo motivo gli interessi sono divergenti e l’approccio al protezionismo USA ha avuto nei mesi una strategia variabile in Europa, più diplomatica e attendista quella italiana, più “tranchant” quella spagnola e francese. Molto più accomodante la posizione irlandese o quella tedesca.

Quindi la linea “real politique per una real économie”, con l’accettazione di un dazio generalizzato al 15%, sembrerebbe quella più saggia e più vicina alla realtà, considerate le forze in campo abbastanza squilibrate, con una Ue divisa, caratterizzata da un deficit di riforme strutturali e da una domanda interna poco dinamica. Le recenti stime del FMI sembrerebbero supportare questa tesi.

Secondo le ultime previsione del FMI (luglio 2025), nel 2025 la guerra dei dazi avrà un impatto negativo sui volumi del commercio mondiale di 1,5 punti percentuali, una stima comunque migliore rispetto a quelle realizzate nei mesi scorsi quando il pericolo di dazi più elevati era maggiore. Una stima negativa volta al miglioramento se si considera che lo stesso FMI aveva previsto una riduzione del 3,2% a gennaio e dell’1,7% ad aprile 2025.

Lo stesso vale per le stime sulla crescita del Pil. Le misure protezionistiche potrebbero ridurre di 0,5 punti percentuali le previsioni di crescita mondiale per il 2025. Previsioni in miglioramento se consideriamo che lo stesso FMI aveva previsto un impatto negativo molto più forte (3,3% nelle previsioni di gennaio e 2,8% in quelle di aprile 2025). Ciò significa che comunque l’accordo scozzese è stato migliore del previsto.

L’impatto negativo sull’Italia del neo-protezionismo è stimato nel breve periodo tra lo 0,3% e lo 0,5% del Pil (stima MEF), con circa 22,6 miliardi di euro di export in meno e la perdita di circa 100mila posti di lavoro. Anche se occorre evidenziare che, se non ci saranno dei correttivi di rotta da parte della politica economica e dalla imprese italiane (diversificazione dei mercati, investimenti diretti negli USA, ridimensionamento della debolezza del dollaro, etc.), nel medio periodo i danni economici potrebbero essere più elevati.

Il neo-protezionismo per l’economia italiana, come quello del primo dopoguerra, sarà un cigno nero non paragonabile, però, alle peggiori crisi di questo (crisi subprime o crisi dei debiti sovrani) o dello scorso millennio (crisi del ’29 o del 1987 ad esempio), anche se le nostre imprese dovranno necessariamente farne fronte.

Infatti, dal lato del 22,3% delle imprese italiane che esportano negli USA ci sarà un importante cambiamento nelle strategie in quanto su più della metà di esse ci sarà un forte impatto dei dazi, e un aumento dei costi diretti e indiretti. Le medio-grandi imprese come Illy, Lavazza, Pirelli, Leonardo, Prysmian, Fincantieri, solo per fare alcuni nomi di imprese, stanno già programmando/realizzando nuovi investimenti negli USA. Sono dei campioni italiani che stanno così reagendo ai dazi americani. Ma le altre migliaia di piccole imprese cosa potranno fare e cosa faranno? Questo la prima criticità che il sistema Italia dovrà celermente affrontare nei prossimi mesi.

In conclusione, in una ottica prospettica, non crediamo che il liberismo sia finito ma accorre solo meglio governarlo e adattarlo ai nuovi scenari geopolitici. L’auspicio è che una volta deposte le “armi commerciali” e riequilibrate le bilance commerciali si possa ragionare di politiche commerciali condivise con una nuova Bretton Woods (1944) o più semplicemente, dei nuovi Accordi del Plaza (1985) e la creazione graduale in termini di numero di partecipanti e con dazi decrescenti di una zona di libero scambio (Free Trade Zone) tra i Paesi occidentali, con l’Ue e l’Italia protagoniste.

Torna su