La posizione assunta dall’Autorità guidata da Andrea Camanzi è di particolare importanza per almeno due elementi, il primo quello della necessità di una regolamentazione dei servizi di traporto basati sulla formula di Uber differente rispetto a quello riservato ai taxi; il secondo, cosa non scontata, il riconoscimento dell’esistenza della sharing economy come realtà.
La sentenza del Tribunale di Milano, in modo non diverso da quanto fatto dalle corti di tanti paesi del mondo, ha di fatto messo sullo stesso piano il servizio della sharing economy offerto da Uber con un classico servizio taxi non tenendo conto delle differenze pratiche esistente tra i due. Sicuramente i margini di profitto: come riportato da un’inchiesta del Wall Street Journal un autista Uber in una città come Los Angeles o Washington non guadagnerebbe più di 17 dollari l’ora e avrebbe a carico anche le spese del mezzo. D’altro canto la saltuarietà delle prestazioni offerte dagli autisti Uber ne farebbero più una sorta di ‘ammortizzatore sociale’ che una vera e propria professione.
Nella missiva dell’Autorità si legge che vi è la necessità di “dare un adeguato livello di regolazione alle emergenti formule del trasporto non di linea diverse dai servizi di taxi e Ncc basate su piattaforme tecnologiche che offrono servizi di intermediazione su richiesta e con finalità commerciale (Uber, ndr)”. L’Autorità riconosce la necessità di “introdurre obblighi specifici attinenti a piattaforme, a requisiti del conducente, alla qualità ed alla sicurezza del servizio” – su questo non ci sarebbe nulla di strano, anche se Uber in questione effettua già controlli sull’affidabilità dei conducenti, forse vi sarebbe la necessità di maggiori controlli.
D’altro canto l’autorità richiede un’ “indagine sul recente diffuso utilizzo di tecnologie informatiche applicate in modo innovativo alla mobilità delle persone e sui suoi effetti sia sulla domanda e sui comportamenti degli utenti che sul fronte della offerta dei servizi di autotrasporto di persone non di linea”. Insomma sarebbe necessario riconoscere anche l’inevitabile concorrenza delle fattispecie di trasporto esistenti con le nuove che male non fanno ai consumatori.
La sharing economy è una realtà
L’Autorità prende atto che viviamo in un nuovo secolo e dell’esistenza di una “pluralità di tipologie di servizi di autotrasporto di persone, oggi resa possibile dalla diffusione di tecnologie mobili competitive e dal cambiamento delle abitudini di consumo degli utenti da esse prodotto. La domanda di mobilità – specie per le fasce di reddito basse e per i giovani – si orienta verso sistemi basati sulla flessibilità e sulla condivisione di risorse, tipici della sharing economy”. E’ quindi necessario “far emergere questo mercato, affinché domanda e offerta di servizi possano incontrarsi in modo trasparente e nel rispetto delle regole applicabili all’attività economica d’impresa”.