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Tutti gli strepitii a 5 stelle provocati dall’incarico a Roberto Fico

I Graffi di Damato dopo l’incarico di Roberto Fico ricevuto dal presidente della Repubblica Pur lento di riflessi politici, Luigi Di Maio si è deciso a cambiare registro dopo che il suo collega di partito Roberto Fico come presidente della Camera è stato incaricato dal capo dello Stato di esplorare le possibilità di un’intesa di…

Pur lento di riflessi politici, Luigi Di Maio si è deciso a cambiare registro dopo che il suo collega di partito Roberto Fico come presidente della Camera è stato incaricato dal capo dello Stato di esplorare le possibilità di un’intesa di governo fra il movimento delle 5 stelle e il Pd. Che sulla carta potrebbero disporre di una maggioranza parlamentare, sia pure molto modesta, specie al Senato, e perciò a rischio altissimo di assenze e/o dissensi, in entrambi i partiti.

Impressionato un po’ dalla epifania empatica di Fico, un po’ da quell’imponente schieramento protettivo che ha scortato il presidente della Camera nella salita e discesa a piedi dal Quirinale, come se fosse già un capo di governo in carica, un po’ dalle poche ma preoccupanti dichiarazioni del nuovo esploratore, senza un minimo riferimento personale all’aspirante ufficiale del movimento delle 5 stelle a Palazzo Chigi, Di Maio ha cambiato registro nel rapporto privilegiato avuto sino ad allora col segretario leghista Matteo Salvini. Potremmo fare insieme grandi cose, avevano entrambi detto sino a qualche ora prima della nuova iniziativa di Sergio Mattarella in direzione del Pd. Solo se Salvini -pensava Di Maio- si decidesse a rompere con Berlusconi, e al tempo stesso a riconoscere al  “capo” delle cinque stelle il diritto di prelazione su Palazzo Chigi.

L’irruzione di Fico sulla scena della crisi, sia pure solo in veste di esploratore, e per un’ipotesi di maggioranza parlamentare striminzita, come del resto sarebbe anche quella composta da pentastellati e leghisti, ha restituito a Di Maio il coraggio o il realismo, o entrambi, di interrompere il dialogo più o meno a distanza con Salvini. Che non c’è rimasto solo male, ma è andato su tutte le furie, scagliandosi contro Mattarella, scambiando per un colpo di Stato, o quasi, il coinvolgimento del Pd nello scenario di un nuovo governo e minacciando “una passeggiata su Roma”, variante della più celebre e infausta marcia di Benito Mussolini e delle camicie nere nel 1922.

La rinuncia di Di Maio al cosiddetto forno leghista, nel timore peraltro che il suo collega di partito Fico possa sopravvivere politicamente alla disperata missione di un’intesa col Pd diventando per la sua carica di presidente della Camera un concorrente alla guida di un governo istituzionale, di decantazione, di emergenza e quant’altro, ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche nella redazione del Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio, sicuro di vedere e difendere la causa dei leghisti meglio dei loro capi pro-tempore, ha gridato a suo modo, già nel titolo del suo editoriale “Basta cazzate”.
In verità, Travaglio se l’è presa con quelle di Salvini, che non ha mai visto come un buon interlocutore o potenziale alleato dei grillini, preferendogli mille volte il pur debole -o proprio perché più debole- Partito Democratico. Il cui programma, guarda caso, il professore e altri esperti incaricati da Di Maio di studiare la materia hanno appena scoperto maggiormente vicino a  quello delle cinque stelle, non si è ben capito se al netto o al lordo delle modifiche apportate dopo le elezioni del 4 marzo al testo approvato prima dalla base col solito sistema digitale.

Ma il direttore del Fatto ha parlato a nuora, cioè Salvini, perché suocera intenda, cioè Di Maio. Che ha inteso, non so ancora se in tempo per salvare la sua ormai ammaccata leadership politica nel movimento.

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