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Oakeshott, Schmitt, Strauss, Hayek: i padri nobili della destra europea

Il Bloc Notes di Michele Magno

C’era una volta la contrapposizione frontale tra i duri-e-puri del neoliberismo e i custodi incorrotti del welfare state. Oggi, nella notte del disordine dei sistemi democratici e dell’avanzata dei movimenti populisti, molte vacche sono diventate grigie o nere. Certo, la destra continua a richiamarsi ai suoi valori di sempre, a partire dal primato del mercato. Ma il campo delle grandi questioni etico-politiche resta disseminato di divergenze e contrasti. Basti pensare ai nodi del federalismo, dell’immigrazione, dei diritti civili, della bioetica. Eppure nel Novecento europeo una “destra intransigente” c’è stata. Uno storico di orientamento marxista, Perry Anderson, intitolò proprio così un indovinato saggio apparso nel 1992. I suoi padri nobili? Secondo l’editorialista della “New Left Review”, sono stati quattro: Michael Oakeshott, Carl Schmitt, Leo Strauss e Friedrich von Hayek.

Dal punto di vista anagrafico, Strauss (1899-1973), Hayek (1899-1991) e Oakeshott (1901-1990) sono quasi perfettamente coetanei. Più anziano di un decennio, Schmitt (1888-1985) fu attivo nello stesso arco di tempo. Benché provenienti da discipline differenti -rispettivamente dalla filosofia, dall’economia, dalla storia, dal diritto- i loro interessi si sono incrociati sotto la spinta del collasso della società europea, sfibrata tra le due guerre mondiali dal tracollo industriale, dalle rivolte operaie e dalla violenta reazione dei ceti medi. Schmitt, originario della Vestfalia, si mette subito in luce durante la Repubblica di Weimar come il più fiero avversario cattolico del socialismo e del liberalismo. Impegnato in dispute vibranti sul precario parlamentarismo della Germania, non esita a bollarli come annacquate teologie laiche, destinate a essere travolte dalla mitologia nazionalistica (“Cattolicesimo romano e forma politica”,1923).

Le sue riflessioni sfociano così in quel “decisionismo” su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro. Teoria che mirava a proiettare sul terreno dei moderni conflitti collettivi lo stato di natura descritto da Hobbes nel “Leviatano”. In questa prospettiva, il compito del potere sovrano non era più quello di garantire la pace reciproca, bensì quello di determinare i confini della comunità, distinguendo gli amici dai nemici. Una cruda visione dell’autonomia del “politico”, che derivava da uno scenario regionale nel quale -ai suoi occhi- la scelta obbligata era tra rivoluzione o controrivoluzione: “Nell’Europa centrale -dirà in un discorso pronunciato a Barcellona nel 1929- viviamo ‘sous l’œil des Russes’ “. Ammiratore di Joseph De Maistre e di Doloso Cortés, la sua preferenza per la seconda soluzione non verrà mai meno.

In Inghilterra, dove il manifesto filocattolico di Schmitt viene pubblicato nel 1931 nella collana “Essays in Order” (insieme a testi di Jacques Maritain e Nicolaj Berdjaev), lo scontro politico non era altrettanto polarizzato. Negli anni Venti Cambridge era un’oasi accademica riparata. La curiosità di Oakeshott, comunque, era indirizzata altrove. La sua prima pubblicazione è un trattatello sulla religione d’impronta ancora anglicana, volto a dimostrare il carattere sostanzialmente unitario di civiltà e cristianità (“Society Pamphlet”, 1927). Quando però la sua attenzione si sposta sulla politica, il “Leviatano” diventa per lui “forse l’unico capolavoro di filosofia politica in lingua inglese” (“Hobbes on Civil Association”, 1946).

Ma non è questo l’unico punto di contatto con il pensiero di Schmitt. Al giurista tedesco lo univa anche l’aperto disprezzo per le teorie democratiche. E i toni con cui giudicava il nume tutelare della tradizione liberale della madrepatria erano quelli tipici della destra radicale: “[…] il governo parlamentare, il progresso, la discussione, l’etica della produttività, sono tutti concetti -inseparabili dal liberalismo di Locke- […] assurdi e screditati”. Oakeshott scrive questo atto d’accusa per la “Cambridge Review” nel novembre 1932, alla vigilia della vittoria nazista in Germania. Pochi mesi dopo, Schmitt -che già era stato consigliere dei cancellieri Heinrich Brüning e Kurt von Schleicher- si schiererà con Hitler. Analizzando i misfatti del Führer, verso la fine del decennio Oakeshott ammetterà che la democrazia rappresentativa -per quanto fragile nei suoi presupposti istituzionali- aveva tutto sommato qualche pregio. Nondimeno, “[…] m’arrischio a suggerire che l’origine di molti dei principi che appartengono al pensiero conservatore è da rintracciare nella tradizione cattolica”, si affrettava a precisare con un esplicito riferimento alla forma costituzionale dell’Austria di Engelbert Dollfuss e del Portogallo di Antonio Salazar (“The Social and Political Doctrines of Contemporary Europe”, 1939).

Nel frattempo, Strauss era entrato nel movimento sionista e aveva cominciato ad approfondire prima l’esegesi biblica di Spinoza e poi l’opera di Hobbes. Proprio le ricerche su Hobbes lo mettono in comunicazione con Schmitt, con il quale a Berlino stabilisce una salda amicizia. Nel 1932, gli dedica un libello -insieme elogiativo e ammonitore- in cui sosteneva che, nel rigettare lodevolmente i principi del liberalismo, Schmitt ne aveva però frainteso la genesi filosofica. Perché la teoria hobbesiana dello Stato, lungi dal rappresentare un antidoto contro il moderno liberalismo, ne costituiva l’autentico fondamento. Enfatizzando l’ostilità come sentimento dominante nella vita associata, egli aveva creato un involontario “liberalismo con davanti il segno meno”.

Schmitt accolse l’obiezione dell’amico senza battere ciglio. Anzi, prima che le camicie brune bruciassero il palazzo del Reichstag, lo aiutò a raggiugere la Francia. Trasferitosi a Londra nel 1934, Strauss cerca di dimostrare che l’opera di Hobbes tendeva a rimpiazzare il modello classico dell’ordinamento politico, basato sui privilegi aristocratici, con una teoria della sovranità giustificata dalla paura. Un edificio costruito, quindi, sulle sabbie mobili del “rifiuto di ogni graduazione del genere umano” (“The Political Philosophy of Hobbes, 1936). Tesi in qualche misura accolta dallo stesso Oakeshott, per il quale tuttavia l’ideatore del “pactum subiectionis” non aveva inteso sacrificare sul suo altare le virtù eroiche della parte migliore della società: nel suo realismo, le aveva soltanto conferite a pochi privilegiati, “a causa della scarsità di nobili caratteri”.

Nel 1938 Strauss ottiene una cattedra all’università di Chicago. Inizia a pubblicare una serie considerevole di lavori, e elabora una teoria politica di cui si avvarrà la scuola più risoluta del conservatorismo americano. I suoi punti nevralgici sono due. Il primo: un ordinamento politico giusto deve fondarsi sulle immutabili esigenze del diritto naturale. Il secondo: l’ordinamento politico migliore è quello che rispecchia le diversità dell’eccellenza umana, e perciò a guidarlo deve essere un’élite di competenti (“Liberalismo antico e moderno”,1968). Nietzsche diventa così la sua stella polare: per Strauss il solo filosofo che aveva compreso pienamente quanto fosse profonda la crisi della modernità con l’avvento della democrazia di massa.

Dal canto suo, Oakeshott era convinto che il suffragio universale sfidasse non tanto la gerarchia delle doti naturali, quanto quella delle stesse scelte esistenziali. L’anti-individuo che si nasconde dietro la pura e semplice autorità dei numeri “si caratterizza -spiegava- per l’inadeguatezza morale, non intellettuale”. Qui le loro strade si separano. In effetti, ciò che Oakeshott ripudiava per Strauss era invece un ideale: il buon governo della città. L’uno rintracciava i suoi modelli normativi nel medioevo, l’altro nell’antichità. L’uno liquidava la polis come un’esperienza storicamente irrilevante. L’altro giudicava i pogrom come un riflesso dell’oscurantismo dell’età di mezzo. Ma, al di là delle dispute dottrinarie, alla base di questa divergenza c’era una ragione politicamente più stringente. La particolare veemenza con cui Oakeshott si scagliava contro ogni proposito di ingegneria istituzionale derivava, infatti, soprattutto dalle preoccupazioni sollevate dalla pianificazione economica agitata nei programmi dei laburisti. Preoccupazioni certo più sentite a Londra che a Chicago.

Tuttavia, tali preoccupazioni varcheranno rapidamente l’oceano grazie ad Hayek, che aveva preceduto lo stesso Oakeshott nella denuncia dei guasti intollerabili della pianificazione. L’economista austriaco era arrivato alla London School of Economics nel 1931. Nel paese natale aveva avuto una formazione laica, genuinamente liberale, immune da ogni tentazione spiritualistica. Non a caso era stato Ernst Mach a suscitare i suoi primi entusiasmi filosofici. Ma il suo vero mentore era Ludwig von Mises, campione del libero mercato. La situazione dell’Austria lasciava però ben poco spazio al suo liberalismo puro, lacerata com’era da una lotta senza quartiere tra una sinistra socialista e una destra clericale. L’unica soluzione sembrava quella di un governo autoritario. Consigliere di monsignor Seipel, il prelato che guidò il paese alla fine degli anni Venti, Mises approverà i provvedimenti adottati da Dollfuss per battere il movimento operaio, scaricando la responsabilità della dura repressione del 1934 sulla follia dei socialdemocratici, che contestavano l’alleanza con il regime mussoliniano.

Negli stessi anni, Hayek era entrato in una competizione al calor bianco con Keynes per affermare la supremazia del suo credo economico. Scoppiata la guerra, nel 1944 lancia da Cambridge -dov’era sfollato- un appassionato grido d’allarme contro la logica totalitaria della pianificazione centralizzata (“La via della schiavitù”), che lo rese famoso. La sua polemica prendeva di mira la sostanziale continuità tra socialismo e nazismo, entrambi perniciosi fenomeni di origine tedesca, e nel contempo segnalava i pericoli per la libertà insiti nel verbo laburista. Scoraggiato dal clima di isolamento in cui si era venuto a trovare dopo il successo dei laburisti di Clement Attlee, nel 1950 decide di partire per Chicago. Accantonati gli studi economici, si dedica all’elaborazione di una teoria della società e della politica che si sarebbe rivelata come la più ambiziosa tra quelle emerse dai ranghi della destra postbellica.

Nella sua riflessione, Hayek distingue due tradizioni di pensiero sulla questione della libertà. La prima è quella di matrice empirista -in prevalenza britannica- iniziata da Hume, Smith e Ferguson, la quale metteva l’accento sul carattere spontaneo del processo di miglioramento istituzionale, paragonabile nel suo funzionamento a quello dell’economia di mercato. La seconda è quella -spiccatamente francese- di matrice razionalista, che sulla scorta di Descartes e Comte ha ispirato la visione delle istituzioni come laboratorio di interventi e progetti di ingegneria sociale. Per Hayek, solo la prima linea di pensiero assicura reali condizioni di libertà, mentre la seconda le annienta (“La società libera”,1960).

Molti anni dopo, sarà costretto ad ammettere che i suoi ideali politici non avevano raccolto il consenso che meritavano; e che l’ordine spontaneo del mercato non solo escludeva necessariamente l’eguaglianza, ma poteva ignorare anche i meriti. In altri termini, si vedrà costretto a mettere in discussione l’assunto di Strauss, che fondava la gerarchia sociale sulla diversità dei talenti naturali. Hayek riteneva che questa fosse una verità troppo scomoda per essere divulgata con leggerezza, e confidava nell’efficacia dei vincoli religiosi per tenere a freno le insofferenze dei perdenti nella lotteria della vita (“Legge, legislazione e libertà”, 1973-1976).

Al di là delle loro differenti simpatie politiche e vocazioni teoretiche, tutti e quattro i pensatori della “destra intransigente” erano assillati dai rischi insiti nella democrazia di massa, temuta come l’abisso nel quale sprofonda l’assenza di regole: “to mysterion tes anomias”, il mistero della mancanza della legge. Per scongiurare il pericolo, avevano eretto nel corso di sei decenni barriere più o meno resistenti all’usura del tempo. Ma una cosa è certa: le risorse culturali spese in questa impresa, indipendentemente da come la si voglia valutare, sono state davvero notevoli.

La vastità degli interessi di Strauss e la sua statura intellettuale non avevano uguali nella sua generazione. Gli stessi cedimenti di Schmitt al nazismo non ne hanno pregiudicato la straordinaria capacità di fondere ingegno analitico e immaginazione metaforica, a cui si devono illuminanti intuizioni sul sempiterno problema del potere. Hayek ha saputo elaborare una critica dello Stato assistenziale la cui portata e la cui forza rimangono ancora attuali. In questa galleria di personalità, Oakeshott si distingue anche per le sue qualità letterarie. I suoi libri sono espressione di un raffinato esercizio di seduzione intellettuale. La sua prosa ha un tocco di edoardiana opulenza: “Nell’attività politica, dunque, gli uomini solcano un mare sconfinato e senza fondo: non ci sono porti dove ripararsi né superfici dove gettare l’ancora, e tanto meno un luogo di partenza o una destinazione prefissata, […] e non c’è neppure una spiaggia da scoprire per il progresso” (“Rationalism in Politics”, 1962).

Resta ancora attuale la considerazione con cui Anderson chiude il suo saggio. Se paragoniamo la fortuna di questi pensatori a quella di alcuni intellettuali democratici del Novecento, riscontriamo una singolare contraddizione. Il solo John Rawls in un ventennio aveva accumulato una bibliografia superiore a quella di tutti i nostri messi insieme. Tuttavia, il suo concetto di “giustizia come equità” ha esercitato una scarsa influenza sulle strategie dei partiti e sulle politiche governative. Uno dei motivi è forse imputabile alla riservatezza dello stesso Rawls, poco disposto a prendere posizioni pubbliche per non rischiare la propria reputazione. Ma un motivo più importante va cercato in un’idea di giustizia irenica quanto distante da una realtà segnata da incessanti e tumultuose trasformazioni. Al contrario, la voce dei pensatori di cui abbiamo parlato era almeno ascoltata nelle cancellerie. Schmitt fu consigliere di von Papen e ricevette Kurt Kiesinger; gli straussiani affollarono il Consiglio per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Ronald Reagan; Hayek fu incensato da Margaret Tatcher alla Camera dei Comuni; Oakeshott entrò nel breviario ufficiale del premier John Major. Una destra non solo intransigente, insomma, ma anche autorevole.

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