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Eleonora Duse, la divina del teatro

Il Bloc Notes di Michele Magno

Che Eleonora Duse sia stata la divina” del teatro è ben noto e assodato: la “più grande attrice che io abbia mai visto”, per Charlie Chaplin. Rievocando una lontana recita del “Gabbiano” di Anton Čechov, a cui aveva assistito, Ortega y Gasset confidava: “Ricordo l’impressione che mi fece […]: una donna alta, consumata, che non era più giovane e mai fu bella, che sprigionava, nei suoi occhi e nelle sue labbra, un movimento di uccello ferito, colpito all’ala. Noi rapaci del tempo uscimmo dal teatro col cuore contratto, e con una specie di fuoco fatuo in esso, che è il fuoco dell’amore adolescente”. Attrice sublime, dunque, davanti alla quale sovrani potenti e gli intellettuali più vezzeggiati d’Europa cadevano in adorazione. Ma anche formidabile ambasciatrice culturale dell’Italia nel mondo, come sostiene nella sua biografia Alphons Rheinhardt. Pubblicata per la prima volta a Berlino nel 1929, molto citata e poco letta, è stata tradotta da Lavinia Mazzucchetti per l’editore Castelvecchi ( 2015).

Il testo del letterato viennese, seguace dell’espressionismo, amico di Robert Musil e Joseph Roth, internato dai nazisti e morto a Dachau (1945), è una sorta di diario dello sviluppo artistico e delle svolte esistenziali della “bète de théàtre”, che attinge largamente all’enorme serbatoio delle recensioni, delle testimonianze e degli epistolari dell’epoca. Rheinhardt, in fondo, non nasconde la sua nostalgia per un mito che rischiava di essere soppiantato da quello di Greta Garbo (la quale nel 1925 aveva girato “La via senza gioia”, con la regia Georg Wilhem Pabst). All’inizio degli anni Trenta il regista Rouben Mamoulian aveva pensato proprio alla “divina” del cinema per un film sulla Duse, ma il progetto era stato archiviato nel timore di un fiasco della star hollywoodiana.

La prima italiana a cui la rivista “Time” ha dedicato la sua copertina nasce a Vigevano, il 3 ottobre 1858. Luigi, il nonno paterno originario di Chioggia, era un acclamato commediante. Dopo la sua morte, il figlio Alessandro e sua moglie Angelica Cappelletto, i genitori di Eleonora, si aggregano alla compagnia di famiglia, che sbarcava il lunario a stento tra le contrade venete e lombarde. Ha appena quattro anni quando il suo nome appare a Zara su un manifesto: è Cosette nei “Miserabili” di Victor Hugo, nella riduzione curata dallo zio Enrico e da Giuseppe Lagunaz. A poco a poco il teatro, vissuto nell’infanzia soltanto come un dovere imposto dal bisogno, diventa un mistero eccitante. Quattordicenne, è la Giulietta di Shakespeare a Verona. Ed è lì che in lei scocca la scintilla: “Una domenica di maggio, nell’immensa Arena, nell’anfiteatro antico, sotto il cielo aperto, dinanzi a una moltitudine di popolani che avevano respirato nella leggenda di amore e di morte, io fui Giulietta. Nessun fremito delle platee più vibranti, nessun clamore, nessun trionfo valse mai per me l’ebbrezza e la pienezza di quella grande ora”. Scritturata da diverse compagnie, sale dal ruolo di “seconda donna” a quello di “amorosa”.

Ventenne, è a Napoli per una stagione al teatro dei Fiorentini, dove lavora col giovane Giovanni Emanuel e con la celebre Giacinta Pezzana. Nella città partenopea Eleonora conosce Matilde Serao, che diventerà la sua amica più cara; si invaghisce di un maturo seduttore, Martino Cafiero -direttore del “Corriere del Mattino”- che le svela i segreti di Posillipo e del Vomero; recita in “Teresa Raquin” di Émile Zola, un dramma crudo e realistico che corrispondeva alla sua indole inquieta e alla sua vena innovatrice. Il suo talento viene notato da Cesare Rossi, capocomico di una affermata compagnia, che le offre il ruolo di “prima donna”. Lo segue a Torino, dove l’amministrazione comunale gli aveva offerto un contratto vantaggioso.

Non sarà un’esperienza esaltante. Il cartellone del teatro civico era zeppo di titoli mediocri e ammuffiti, gli incassi erano magri, la sala immancabilmente semivuota. Eleonora era sull’orlo della disperazione. Solo un premuroso collega, il suo futuro sposo Tebaldo Checchi, riusciva a confortarla con il suo affetto e la sua protezione. La gelida atmosfera di noia che la opprimeva viene improvvisamente spezzata da una notizia inattesa: la grande Sarah Bernhardt, detta la “Voix d’or”, stava arrivando nel capoluogo piemontese per un ciclo di recite. Per Eleonora sarà un evento indimenticabile: “Essa giungeva circonfusa dalla grande aureola della sua gloria, già universale […]. Indirettamente mi sentii liberata anch’io, sentii di avere diritto di far ciò che mi sembrava il meglio, cioè diversamente da quello che mi costringevano a fare […]. Essa aveva recitato ‘La signora delle camelie’, e come mirabilmente! Mi ci sono recata ogni sera a udirla e piangere”.

Nel 1881 convince il suo impresario a rappresentare un’opera di Alexandre Dumas figlio, “La principessa di Bagdad”. La scelta si rivela azzeccata e imprime una svolta alla sua carriera. L’anno dopo è l’applauditissima protagonista di un altro dramma di Dumas figlio, “La moglie di Claudio”. I critici, tra cui l’autorevole e assai riverito Francesco D’Arcais, sono ormai ai suoi piedi. Il cronista Camillo Antona Traversi annota entusiasta: “Sul palcoscenico del Valle ogni sera piangeva, soffriva, amava, delirava una creatura umana. La solita finzione scenica aveva ceduto il posto alla verità […]. Oh, la infinita bellezza di quell’arte! Fu un grido di gioia. Un canto di vittoria”. Dopo una breve pausa, imposta dalla nascita nel 1882 della figlia Enrichetta, poi affidata a una coppia di contadini piemontesi, Eleonora riprende i suoi pellegrinaggi nei teatri della penisola. Ormai non c’era città che ignorasse il suo nome. Nel 1885 interpreta a Roma “Dionisia”, l’ultima eroina uscita dalla penna di Alexandre Dumas. Durante le prove ha un crollo. Sa di essere fragile e malata, ma recita lo stesso per dieci sere consecutive tra la venerazione degli spettatori, sorretta da una energia nervosa quasi demoniaca. Durante la forzata convalescenza legge di tutto, si impadronisce della lingua francese, si prepara per il suo primo viaggio in terra straniera, a Rio de Janeiro.

Una tournée deludente: solo tre recite, un’accoglienza tiepida, le spese non coperte dalla vendita dei biglietti. Inoltre, il matrimonio in frantumi e un nuovo amore: l’attore Flavio Andò. La rottura con il Rossi era nell’aria. Si consuma nel 1886, quando la Duse fonda la Compagnia drammatica della città di Roma. La sua decisione aveva riacceso le speranze di quanti auspicavano un rinnovamento della drammaturgia nazionale. Ma Eleonora rifiuta di rappresentare il dramma di un maestro del realismo -“Giacinta” di Luigi Capuana- e gli preferisce “La Badessa di Jouarre” di Ernest Renan. Chiede anche ad Antonio Fogazzaro, senza esito, di ridurre per il teatro il romanzo “Daniele Cortis”. A chi la esortava a prendere in mano le redini del teatro italiano, rispondeva privilegiando la propria avventura personale. Sebbene fosse ormai in grado di promuovere iniziative redditizie nel mercato internazionale degli spettacoli, restava la solitaria cacciatrice di un teatro aderente alla vita. I suoi silenzi, sussurri, gesti del corpo, destinati a penetrare la verità del personaggio, diverranno ben presto moduli di uno stile di recitazione considerato esemplare. Vicina, in questa sua ricerca, ai più irrequieti esponenti delle rivoluzioni teatrali di fine secolo e dei primi decenni del Novecento: da Konstantin Stanislavskij a Gordon Craig a Isadora Duncan (dalla Duse molto ammirata, fino a suscitare qualche pettegolezzo sulla natura del loro rapporto).

Quando forma la sua prima compagnia indipendente, la Duse già conosceva Arrigo Boito.Il geniale librettista di Giuseppe Verdi per più di sette anni sarà la sua guida spirituale, il suo maestro artistico e il suo amante clandestino. La introduce negli ambienti della Scapigliatura milanese e adatta per lei tre tragedie shakespeariane (“Antonio e Cleopatra”, “Macbeth” e “Romeo e Giulietta”). Un legame fortissimo, cementato dal miraggio di un nucleo familiare stabile. In realtà, la loro relazione era l’opposto di questa aspirazione alla normalità: si svolgeva fra complicati e fuggevoli incontri e l’amarezza di lunghi periodi di separazione; e soprattutto attraverso un fittissimo carteggio.

Se le sue prime lettere sono balbettanti e talvolta perfino sgrammaticate, grazie alla scuola di “Bubo” (come lo chiamava) Eleonora inventa una sua lingua che si fa sempre più ricca e precisa, fino a mostrare una notevole originalità espressiva. Boito l’aveva liberata dal suo antico complesso di inferiorità nei confronti dell’alta cultura; e le aveva insegnato la religione dell’arte, valore sommo a cui ogni altro bene deve essere sacrificato. All’apice della sua maturità artistica, la trentenne Eleonora si reca sempre più all’estero. Le sue presenze in Italia sono quasi delle eccezioni. In meno di un decennio, dal 1888 al 1897, espugna i teatri più prestigiosi delle due sponde dell’Atlantico. Tra Russia, Europa e America, quasi cento tournées in circa settanta città diverse: di regola, quattro o cinque recite a settimana. Un impegno massacrante, che ne consoliderà la fama di massima attrice del momento, nonostante la sua proverbiale ripugnanza per gli eccessi della pubblicità e per i riti del divismo.
Nel 1896 viene ricevuta alla Casa Bianca dal presidente Glover Cleveland. Un onore non concesso alla Bernhardt, che negli stessi giorni recitava a New York. Nel maggio 1897 l’attrice francese subirà uno smacco ben più cocente: la conquista della sua Parigi e del suo “Théâtre de la Renaissance” da parte dell’eterna rivale. La Margherita Gautier della Duse viene osannata da pubblico e critica. Se nel passato il paragone con la Bernhardt poteva sembrare ardito e provocatorio, ora serviva solo a sanzionare la superiorità dell’attrice italiana. Il giudizio di George Bernard Shaw, che le aveva viste entrambe nella primavera del 1895 a Londra, è netto: “Bisogna dire che nell’arte di esser bella la Bernhardt è una povera innocente in confronto alla Duse […]. Quando si consideri che per lo più gli interpreti tragici eccellono soltanto negli scoppi di quelle passioni che sono comuni agli uomini e alle bestie, non sarà difficile comprendere l’indiscutibile primato dell’arte della Duse, cui sta alla base in ogni suo minimo tratto un’idea puramente umana […]”.

In occasione della tournée parigina, Gabriele D’Annunzio aveva scritto per lei “Sogno d’un mattino di primavera”. Eleonora lo aveva conosciuto a Venezia, nel 1894. Ne era rimasta affascinata e gli aveva proposto un patto: se avesse composto opere per il teatro, lei avrebbe procurato i mezzi per rappresentarle. Vedeva in quell’uomo dal portamento elegante, con “il sorriso innocente e cordiale di un fanciullo”, il demiurgo capace di infrangere le convenzioni drammaturgiche imperanti. Nel 1898 il poeta affitta la villa trecentesca della Capponcina sui colli di Settignano, sopra Firenze. Era contigua alla Porziuncola, la dimora della Duse. Mentre la relazione con Boito era stata tenuta rigorosamente segreta, quella con D’Annunzio diventa di dominio pubblico dopo la pubblicazione di un romanzo del Vate, “Il fuoco” (1900), colmo di espliciti e inverecondi riferimenti autobiografici. Eleonora ne è scossa, ma lo accetta in nome delle ragioni ultime dell’arte. Al suo impresario, Joseph Schürmann, scrive: “Conosco il romanzo, e ne ho autorizzato la stampa, perché la mia sofferenza, qualunque questa sia, non conta quando si tratta di dare un altro capolavoro alla letteratura italiana. E poi, ho quarant’anni… E amo!”.

Nonostante il suo orgoglio ferito, la Duse continua a rappresentare i testi dannunziani, creando una nuova compagnia con Ermete Zacconi. Per l’allestimento di quello più ambizioso, “Francesca da Rimini”, sperpera un patrimonio. La prima recita romana del “poema di sangue e voluttà”, nel dicembre 1901, è però un disastro. Quella platea che aveva mandato tante volte in visibilio le volta le spalle, e si scatena in un diluvio di fischi e di insulti. Lo sdegno dell’attrice offesa tre anni dopo si trasformerà nel dolore dell’amante frodata, quando “La figlia di Iorio”, il primo vero successo del teatro di D’Annunzio, viene interpretata da Irma Gramatica. Il loro sodalizio, in passato già messo a dura prova da numerose incomprensioni e tradimenti, si scioglie.

Abbandonato il repertorio dannunziano, la Duse recita ancora per quattro anni. Henrik Ibsen è il “suo salvatore”. È di nuovo a Parigi, Londra, Vienna. Al culmine della sua leggenda, si congeda dal palcoscenico nel 1909, dopo aver interpretato a Berlino “La donna del mare”, opera eccelsa del drammaturgo norvegese. Si riavvicina alla figlia Enrichetta, minacciata come lei dalla tisi. Affida la maggior parte delle sue sostanze a Robert von Mendelsshon, un abile uomo d’affari. Compra una casetta a Firenze, che riempie di libri. Rivede i vecchi amici e, anche se Rheinhardt è pudico fino alla reticenza su questo particolare, convive per un paio d’anni con Cordula Poletti, già compagna di Sibilla Aleramo. Una crisi mistica non le impedisce di coltivare interessi culturali molteplici. Ha tra i suoi interlocutori Paul Clodel, Grazia Deledda, gli intellettuali radunati intorno alla rivista “La Voce”. Giovanni Papini la esorta a scrivere: “Voi siete soprattutto scrittrice, e grande”.

Alla vigilia della guerra, la Duse si trasferisce a Roma. Risiede a villa Ricotti, sulla Nomentana. Con il favore delle dame dell’aristocrazia capitolina, la trasforma in una “Casa delle attrici”. Ma l’Italia scopre tutta la sua generosità quando non lesina i suoi denari e la sua arte per il “Teatro del fronte”, creato per alleviare le pene dei combattenti e dei reduci. Se ne staccherà indignata. Infatti, si accorge che era diventato solo un pretesto per i soldati che volevano evitare furbescamente la prima linea. In quegli anni, tuttavia, non rinuncia a frequentare gli spettacoli che più prediligeva: il teatro delle marionette, il varietà, il cinema. Nel 1916 gira un film, “Cenere”, tratto da una novella di Grazia Deledda. Vi compare senza trucco, con una recitazione raffinatissima fatta di piccoli gesti e di immagini potenti. Nel 1921 torna a calcare il palcoscenico. A Torino recita, con i capelli bianchi e senza belletto su un viso luminosamente candido, la parte dell’ibseniana Ellida. È esausta, ma deve lavorare. I suoi creditori sono ormai un esercito. Chiede aiuto a D’Annunzio, il “Comandante di Fiume”, ma invano. Grazie a una sconosciuta ammiratrice, Miss Onslow, ottiene un invito per sei recite a Londra. Nel maggio 1923 recita “Gli spettri” di Ibsen. Ora è in grado di onorare i debiti più urgenti.

Eterna girovaga, il 10 ottobre si imbarca a Cherbourg per una tournée negli Stati Uniti. A New York l’aspettano folle esultanti e feste sfarzose. Lo stesso a Baltimora, Philadelphia, Cuba. Avrebbe voluto riposarsi nel tepore primaverile della California, ma non le viene concesso. Deve tornare tra i grattacieli che aveva lasciato cinque mesi prima. Con uno sforzo sovrumano, porta a termine quella che sarà la sua ultima recita. Squassata da una febbre violenta e con i polmoni a pezzi, viene condotta in albergo. Il 21 aprile 1924 cessano le sue torture. La sua bara viene adagiata sulla tolda di una superba nave italiana, il Duilio. Nel porto di Napoli viene accolta come una regina. Poi Roma le tributa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli il più solenne dei saluti. E ancora Firenze, Bologna, Padova offrono orazioni e cortei dolenti, finché il viaggio trionfale non giunge alla meta. La salma di Eleonora Duse viene deposta nel piccolo cimitero dell’amatissima Asolo, sotto la chiesa di Sant’Anna, dagli amici più intimi e da devoti paesani.

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