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Caso Fedez e Ddl Zan, perché serve un ripasso della Costituzione

Il post di Alessandra Servidori

 

Azione positiva per il rapper Federico Leonardo Lucia in arte Fedez: studi la Costituzione.

È meglio che sbraitare ai follower (seguaci) sulla libertà di espressione, tanto invocata dal palco della festa del primo maggio, (a sproposito visto che forse bisognava invocare il diritto al “lavoro”), la cui tutela costituzionale è contenuta nell’articolo 21, come principio cardine di ogni ordinamento democratico, attraverso un faticoso iter della Corte costituzionale negli anni Sessanta e Settanta che hanno reso l’art. 21 e le garanzie in esso contenute di primaria importanza per il nostro ordinamento.

Non a caso, la Corte arrivò a dichiarare nel 1968 che la manifestazione di pensiero fosse “un diritto […] coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione”, messa però in difficoltà oggi più che mai dal fenomeno delle fake news, dell’hate speech e del post-truth. (In italiano per non cedere sempre al mito dell’anglofilia dicesi rispettivamente: notizie false, discorsi d’odio, post-verità).

Nuove espressioni sociali sottoposte al diritto penale, fenomeni di proporzione ormai planetaria nate da una costola di Internet e dai tratti costitutivi della comunicazione attraverso i social network che hanno visto nascere problematiche nuove per il mondo dell’informazione: la disintermediazione tra il pubblico destinatario delle notizie e le agenzie di diffusione; la perdita di prestigio e di centralità dei professionisti; la possibilità di un relativo anonimato; la pervasività e capillarità della diffusione delle notizie; la circolazione pressoché incontrollata di opinioni e teorie che sfuggono alla verifica scientifica; l’invadenza della pubblicità; l’impiego di algoritmi che consentono alle grandi piattaforme della Rete di proporre le notizie considerate più appetibili e affini al destinatario.

Così è successo che un rapper (cantautore ) dai toni incendiari usati sovente dai movimenti politici e da parte dei media, trovando grande risonanza nei forum online e sui social media, sta consentendo una replicabilità illimitata dei contenuti e della loro permanenza nel web e ampliando in modo esponenziale il bacino di pubblico raggiunto dopo un contenzioso con la Rai veramente irritante.

Vero è che la Costituzione non utilizza la formula “libertà di espressione”, bensì la formula “libertà di manifestazione del pensiero”.

La libertà di manifestazione del pensiero è tutelata appunto nell’art. 21 della Costituzione, composto di sei commi: il primo concerne la libertà di manifestazione del pensiero in generale; i quattro commi centrali disciplinano solo la libertà di stampa; il sesto sempre la libertà di stampa, ma assieme alle altre forme di “manifestazione”.

E sempre vero è che dottrina e giurisprudenza hanno individuato diversi limiti impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero fondati su principi impliciti desunti dalla Costituzione.

I limiti impliciti alla libertà di espressione possono essere solo quelli che si desumono direttamente dalla Costituzione e sono funzionali alla protezione di altri beni costituzionali, restando invece preclusa al legislatore l’introduzione di limiti ulteriori discrezionalmente individuati.

Nell’art. 3 la Costituzione proclama che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Ciò comporta che manifestazioni del pensiero dal carattere ingiurioso o diffamatorio verso altre persone, che diminuirebbero la dignità sociale dell’ingiuriato e del diffamato, sono punite dalle leggi ordinarie tramite gli artt. 594 (abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. c), D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) e 595 c.p..

Così nella vicenda del DDl  Zan — già portatore confuso di parole non ben identificate come identità di genere per cui, come sostengo da tempo, sarebbe utile andare al cuore la sostanza in sede parlamentare — ci troviamo un influencer che lo strumentalizza con sbraiti e soliloquio.

È più che legittimo far emergere le contraddizioni che in questi giorni agitano due schieramenti: o sei per la difesa del testo, o sei contro la legge che punisce l’omofobia e la transfobia. Ragioniando a voce alta ed essendomi occupata di discriminazioni per decenni, bisogna elencare i difetti evidenti e problematici del testo.

Il Ddl in discussione ha un elemento di confusione fondamentale: è sull’intendere che cosa sia l’identità di genere, posto che non c’è ancora univocità scientifica sulla definizione che fa — nel testo discutibile — della parola identità/genere un assioma in materia discriminatoria coniugandola con altre discriminazioni e violenze legate al sesso, all’orientamento sessuale, alla disabilità.

Non è corretto dunque confondere il concetto di sesso con quello di genere contraddicendo l’articolo 3 della nostra cattedrale costituzionale, per la quale ogni diritto è riconosciuto in base al sesso e non all’identità di genere, termine sconosciuto al diritto.

Se c’è da mettere mano a una legge bisogna farlo sul Codice di Parità del 2006 e successive integrazioni, che ancora contiene dei vulnus antidiscriminatori per cui la violenza sulle donne non è effettivamente perseguita nei fatti. Su questa definizione ambigua in particolare si sono consumate negli ultimi anni forzature inconcepibili del diritto antidiscriminatorio, in funzione di gagliarde politiche che dimostrano con superba idiozia di voler cancellare la differenza sessuale tra donne e uomini negando una scientifica differenza antropologica, e creando ulteriormente visioni e conflitti rispetto all’autonomia femminile.

La legge deve chiarire e bene, senza confusioni, che vuole tutelare le persone Lgtb, dunque la libertà e il rispetto delle differenze di tutti noi: l’avversione all’omotransfobia, sotto il profilo culturale, civile e penale è corretto riconoscerla e introdurla nel vivere civilmente, non conficcandola nel comune sentire abolendo i genitali di nascita e sostituendoli con una nuova identità autopercepita, o negando che sono le donne che partoriscono, o pretendendo che maschi che stanno compiendo la transessualità siano accolti nelle case rifugio destinate a donne vittime della violenza, o affidando a presunti esperti corsi inculcati nelle scuole su Lgtbq e gravidanze affidate ad addomi in affitto.

Se un adulto offende una persona omosessuale deve essere comunque oggetto di provvedimento, ma sui giovani stiamo attenti, molto attenti.

Se il rapper vuol fare politica, faccia come gli pare, ma non  abusi dell’intelligenza media degli italiani.

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