Entro il 2027, l’Unione Europea intende chiudere definitivamente i capitoli delle forniture energetiche provenienti dalla Federazione Russa. L’intesa raggiunta tra i rappresentanti governativi dell’Ue e l’assemblea di Strasburgo segna una svolta epocale nei rapporti commerciali con il Cremlino, maturata cinque anni dopo l’offensiva militare contro Kiev. Sebbene l’obiettivo appaia ambizioso, occorre ricordare come fino ad oggi gli Stati membri abbiano subito le dinamiche del mercato energetico più che determinarle attivamente.
La tempistica dell’accordo coincide significativamente con la pubblicazione di un’indagine che analizza la percezione delle minacce geopolitiche da parte del tessuto imprenditoriale tedesco. L’analisi, condotta dalla società di consulenza Kpmg, porta alla luce un paradosso rilevante nel comportamento strategico: “la mera consapevolezza di un pericolo imminente non si traduce automaticamente in azioni preventive concrete”. Tale fenomeno non caratterizza però solo il mondo delle imprese tedesche ma condiziona anche l’apparato decisionale comunitario nel suo complesso.
DALLA DIPENDENZA ALL’EMANCIPAZIONE
Quella che viene chiamata transizione energetica europea non rappresenta il frutto di una pianificazione lungimirante da parte delle capitali continentali. Il drastico calo delle importazioni dal territorio russo deriva principalmente dalle scelte unilaterali operate dal presidente Vladimir Putin piuttosto che da decisioni autonome di Berlino, Roma, Varsavia o della sede delle istituzioni comunitarie. La riduzione dei flussi energetici dal fronte orientale è stata soprattutto una conseguenza delle strategie del Cremlino.
Alcuni passaggi sembrano già dimenticati, ma è opportuno riportarli alla memoria. Già nel 2021, anno precedente l’invasione russa dell’Ucraina, Mosca aveva intrapreso una politica di contenimento delle esportazioni, con lo scopo di esercitare influenza e pressione politica ed economica sui paesi occidentali. Nei mesi immediatamente successivi all’invasione, poi, il governo russo ha imposto ai partner commerciali occidentali modifiche contrattuali richiedendo pagamenti nella valuta nazionale, in rubli, condizione accettata inizialmente da numerosi acquirenti europei nonostante le difformità rispetto agli accordi originari.
TAPPE DELL’ESCALATION E LE CONSEGUENZE STRATEGICHE
Il percorso verso la rottura definitiva ha attraversato dunque diverse fasi. Tra queste, la nazionalizzazione da parte di Mosca di Gazprom Germania, filiale tedesca del colosso energetico russo, ha rappresentato un momento cruciale. Ad essa sono seguite progressive limitazioni quantitative nell’erogazione dei flussi di gas, giustificate ufficialmente con interventi manutentivi sui gasdotti Nord Stream. Tira e molla con i quali Putin è sembrato giocare al gatto con il topo nei confronto dei governi europei, e di quello di Berlino in particolare. La successiva distruzione fisica dei due gasdotti baltici, avvenuta nell’autunno 2022, ha colpito impianti di fatto già inattivi da settimane.
I dati attuali testimoniano effettivamente una trasformazione radicale: la quota di approvvigionamento russo sul consumo complessivo continentale è precipitata dal 45% al 13%, mantenendosi esclusivamente attraverso condotte terrestri. Ma anche questo risultato scaturisce fondamentalmente dalla pressione moscovita, che ha obbligato gli europei a identificare canali alternativi. Sebbene l’obiettivo del Cremlino di indurre concessioni politiche sia fallito, l’impatto destabilizzante sull’Unione appare innegabile, e ancora oggi si manifesta nelle resistenze di Budapest e Bratislava, che restano legate alle forniture russe. Una dipendenza alla quale solo nel prossimo futuro l’Ue promette di porre fine.
I COSTI ECONOMICI DELLA PASSIVITÀ
L’esperienza maturata in tutti questi anni evidenzia come l’attesa passiva di fronte a minacce conclamate comporti costi economici e politici superiori rispetto a strategie anticipatorie. Il principio si estende oltre il settore del gas e dell’energia più in generale, abbracciando l’intera gamma delle dipendenze strategiche: dai materiali rari ai componenti elettronici avanzati, fino alle piattaforme digitali. Ma benché il concetto possa apparire elementare, gli sviluppi recenti continuano a dimostrare persistenti difficoltà nell’interiorizzare questa lezione fondamentale da parte dei decisori continentali.




