Con l’uscita del rapporto “Colonization of the Mind: The Means, Roots, and Global Perils of U.S. Cognitive Warfare” dello Xinhua Institute, presentato durante il “2025 Global South Media and Think Tank Forum” di Kunming sul Sud Globale, la Cina denuncia una “colonizzazione mentale” da parte americana che sarebbe figlia di strategia sistemica e multilivello con finalità di lungo periodo. Secondo Pechino mirerebbe a plasmare le élite, neutralizzare le critiche e orientare le traiettorie di sviluppo del Sud globale. Nel rapporto si ricostruisce l’evoluzione storica di queste dinamiche, secondo l’interpretazione dell’istituto cinese.
Fin dalle origini, secondo Xinhua Institute, gli Stati Uniti avrebbero costruito il proprio potere ideologico attraverso fasi di espansione territoriale (“Manifest Destiny”), dottrine politiche come la Dottrina Monroe e programmi di “assistenza” che sarebbero stati in realtà veicoli di subordinazione ideologica, come il Piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli aiuti economici venivano vincolati ad una penetrazione culturale e valoriale. Il rapporto analizza gli emblemi del soft power durante la Guerra Fredda, tra questi Voice of America e Radio Free Europe (recentemente chiuse dall’Amministrazione Trump), che iniziarono a tessere una rete globale di influenza informativa. Il report critica l’esportazione nel dopoguerra da parte degli Stati Uniti di modelli politici ed economici (incluso il cosiddetto “Washington Consensus”), intervenendo direttamente in Stati governati da regimi ostili usando la retorica della democrazia, della libertà e dei diritti umani. Secondo la narrativa cinese, questo progetto di influenza non è casuale, e oggi strutturato su un sistema altamente organizzato e tecnologico che si articola su sei pilastri operativi: strategico (che integra neuroscienze e intelligenza artificiale nella guerra ibrida cognitiva); organizzativo (che coinvolge agenzie statali, think tank e ONG), valoriale (dove concetti liberali universali diventano strumenti di penetrazione), mediatico (dai media mainstream alle piattaforme digitali); contenutistico (con cultura pop, accademia, brand globali come McDonald’s, Coca-Cola, Hollywood ecc.); tecnologico (fondato sul dominio delle infrastrutture digitali, degli algoritmi e dei dati). In questa visione, ogni elemento non è indipendente ma funziona come un blocco integrato: il soft power si accompagna al potere tecnologico e al controllo delle narrative, con l’egemonia americana che si fonda tanto su strumenti culturali quanto su strutture geopolitiche. Pechino ritiene che le nuove tecnologie – in particolare l’intelligenza artificiale – renderebbero questa “guerra cognitiva” più pervasiva e meno identificabile. Le piattaforme digitali con algoritmi sofisticati permetterebbero agli Stati Uniti di modellare l’opinione pubblica con grande precisione, creare “bolle cognitive” dove le informazioni pro-USA sono amplificate per monitorare e orientare il consenso, oltre a neutralizzare le voci critiche attraverso tecniche di moderazione e filtro algoritmico. Questo, per la Cina, non sarebbe più solo soft power, ma un’operazione militare non cinetica che attacca la sovranità ideologica degli Stati e la loro autonomia di pensiero. Strategicamente, il rapporto rivela una duplice funzione di questa retorica: all’interno della Cina contribuisce a rafforzare il consenso nazionale, etichettando ogni critica come possibile frutto di infiltrazioni straniere, deresponsabilizzando il potere centrale e consolidando la narrazione di una Cina “assediata ma unita”. A livello internazionale, invece, propone al Sud globale una narrativa alternativa: quella di un mondo multipolare più giusto, in cui le diverse “civiltà e culture” possono dialogare senza essere dominate mentalmente dagli Stati Uniti. In questo contesto, la “decolonizzazione del pensiero” diventa un appello strategico per molti Paesi del Sud del mondo, che possono rispondere con maggiore fiducia culturale e ideologica, rafforzando al contempo i propri modelli di sviluppo su base autonoma. Sul piano istituzionale, il rapporto fa appello a una forma di “indipendenza spirituale” (o ideologica): il Sud globale deve recuperare la propria autostima culturale, sottrarre al modello americano il monopolio dei concetti “universali” e tracciarsi una via di cooperazione che non sia subordinata agli interessi occidentali. Ciò si intreccia con le iniziative internazionali cinesi – come la Belt and Road Initiative (Nuova Via della Seta), ma anche con proposte come l’Iniziativa per la civiltà globale, l’Iniziativa per la sicurezza globale e quella per la governance globale – che offrono al Sud forme di cooperazione economica e istituzionale accompagnate da una narrativa alternativa.
Analisi di think tank occidentali – come quelle della Jamestown Foundation – suggeriscono che il rapporto del Xinhua Institute rientri in una strategia cognitiva cinese che ha l’obiettivo di erodere la legittimità dell’influenza USA e consolidare l’immagine della Cina quale leader “amico” del Sud globale. La retorica della “colonizzazione della mente” servirebbe anche a nascondere le difficoltà interne della Cina, presentando problemi socioeconomici come il risultato di ingerenze straniere piuttosto che di disfunzioni sistemiche. Nel dibattito geopolitico contemporaneo, la narrativa dello Xinhua Institute sulla “colonizzazione della mente” si intreccia con dati concreti: non è una mera metafora retorica, ma parte di un disegno strutturato di proiezione strategica del Partito comunista cinese, che stanzia enormi risorse economiche e tecnologiche.
Influenza strategica globale del PCC
Sul fronte economico e infrastrutturale, la Belt and Road Initiative (BRI) si collega perfettamente con la strategia cognitiva del partito comunista cinese. I paesi dell’America Latina e dei Caraibi (LAC), per esempio, hanno visto tra il 2005 e il 2022 148,9 miliardi di dollari di investimenti cinesi da parte di entità direttamente collegate al governo di Pechino, secondo il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo. Questi investimenti non servono solo a costruire infrastrutture fisiche, ma anche piattaforme culturali, mediatiche e tecnologiche che facilitano la penetrazione ideologica: lo sforzo infrastrutturale si intreccia con una penetrazione narrativa molto invasiva. A livello continentale, il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (FOCAC) è diventato un vettore primario di influenza. La strategia di Pechino prevede finanziamenti massicci, ma anche progetti culturali mirati: tra i vari accordi sottoscritti ci sono 182 miliardi di dollari legati a programmi di finanziamento in Africa. Questi fondi non sono solo infrastrutturali ma comprendono anche “diplomazia pubblica”: sponsorizzazioni culturali, istituti Confucio, eventi mediatici e investimenti nell’arte, nella cultura e nei media occidentali. Un’altra dimensione cruciale è quella tecnologica e digitale: la Digital Silk Road, parte integrante della BRI, punta a installare infrastrutture digitali (dai cavi sottomarini 5G alle piattaforme cloud) nei Paesi del Sud globale, rafforzando così il controllo informativo, ideologico e di intelligence. Con queste reti, Pechino non solo esporta tecnologie, ma crea canali privilegiati per lo spionaggio economico e industriale, l’esfiltrazione di dati, la diffusione di contenuti controllati e ideologicamente orientati, che possono alimentare proprio la “guerra cognitiva” nelle forme denunciate da Xinhua. Sul versante contenutistico, la Cina sta sfruttando l’intelligenza artificiale anche per amplificare il proprio soft power: nel 2024 circa 350 milioni di persone al di fuori della Repubblica Popolare hanno letto romanzi online scritti in mandarino — un aumento del 50% rispetto all’anno precedente —, e il mercato globale della letteratura online cinese ha superato i 5 miliardi di yuan (circa 600 milioni di euro). Questo fenomeno dimostra come Pechino usi l’IA non solo per vendere tecnologia, ma per veicolare narrativa culturale: la letteratura diventa un “cavallo di Troia” per la diffusione di valori, storie, modelli di pensiero e propaganda antioccidentale, sostegno alla guerra russa contro l’Ucraina. Ma non è tutto: Pechino integra soft power culturale con diplomazia sportiva. Attraverso la “stadium diplomacy” (diplomazia dello stadio), costruisce impianti sportivi nei Paesi partner, che fungono anche da simboli visibili della presenza cinese. Questi stadi sono spazi di aggregazione, ma anche luoghi fisici che consolidano il legame simbolico e sociale tra la popolazione locale e l’influenza di Pechino. Sul versante cognitivo-strategico, Xinhua Institute descrive un sistema multilivello che non è affatto astratto: il finanziamento alle iniziative culturali (Confucio, borse di studio), la creazione di infrastrutture digitali (tramite la Digital Silk Road) e la produzione di contenuti digitali innovativi (letteratura, media online) costituiscono pilastri reali di un’offensiva strategica ibrida. Secondo la visione cinese, tutto questo non solo promuove la “decolonizzazione del pensiero” nel Sud globale, ma costruisce una rete di alleanze culturali e cognitive che rafforza la sovranità ideologica dei Paesi partner. Dal punto di vista strategico, si delinea così una moderna forma di “guerra cognitiva”: non basta denunciare l’egemonia americana, la Cina offre al Sud globale strumenti alternativi — economici, educativi, mediatici — per costruire una sovranità del pensiero. La “colonizzazione della mente”, per Pechino, deve essere contrastata non solo con resistenza simbolica ma con investimenti reali. Questi sono già in atto, misurabili in miliardi di dollari, centinaia di istituti culturali, decine di infrastrutture digitali e quasi due miliardi di utenti lettori di contenuti cinesi attraverso le piattaforme social, dove a livello globale primeggia TikTok. I dati rendono la denuncia dello Xinhua Institute meno una teoria astratta e più una strategia geopolitica consolidata: la “guerra cognitiva” è sostenuta da un ecosistema finanziario, mediatico e tecnologico che Pechino sta sistematicamente sviluppando nel Sud globale, non come operazione isolata, ma quale parte integrante della sua ascesa globale e piattaforma narrativa di lungo termine.
Accusa allo specchio
Il report dello Xinua Institute è il classico esempio di “accusa allo specchio”. L’espressione si riferisce a una strategia retorica in cui si attribuiscono a un avversario le colpe di cui ci si macchia, in un meccanismo di auto-assoluzione che proietta le proprie azioni e responsabilità sull’altro. Per molto tempo si è potuto affermare che la Cina, a differenza della Russia, cercasse di essere amata piuttosto che temuta, che volesse sedurre, proiettare un’immagine positiva di sé nel mondo e suscitare ammirazione. Oggi Pechino non ha rinunciato alla seduzione, alla sua attrattiva e all’ambizione di plasmare le norme internazionali. Non “perdere credibilità” rimane molto importante per il PCC. Tuttavia, Pechino è anche sempre più a suo agio con l’infiltrazione e la coercizione: le sue operazioni di influenza si sono notevolmente inasprite negli ultimi anni e i suoi metodi assomigliano sempre più a quelli di Mosca. Questa evoluzione mostra una “russificazione” delle operazioni di influenza cinesi che copre l’intero spettro dei suoi strumenti di influenza, da quelli più benigni (diplomazia pubblica) a quelli più maligni, che significano interferire negli affari di altri Paesi, attraverso partnership e acquisizione di quote azionarie di realtà industriali e infrastrutture strategiche, senza rinunciare a attività clandestine.
Il concetto delle tre guerre
Il concetto delle “tre guerre” rappresenta il nucleo della “guerra politica” cinese, ovvero una forma di propensione non cinetica al conflitto volta a sconfiggere un avversario senza combattere attraverso la creazione di un ambiente favorevole alla Cina. Si tratta di un concetto strategico che coinvolge sia i periodi di guerra che quelli di pace e che comprende la guerra dell’opinione pubblica, la guerra psicologica e la guerra legale (quest’ultima simile a quella che in inglese viene chiamata “lawfare”).
Anche un concetto sovietico è utile per descrivere il repertorio di Pechino: le “misure attive”, che comprendono la disinformazione, la contraffazione, il sabotaggio, le operazioni di screditamento, la destabilizzazione economica dei governi stranieri considerati avversari o poco collaborativi, le provocazioni, le operazioni “false flag” (sotto falsa bandiera) – come quelle delle navi fantasma che in questo periodo attraversano i nostri mari e sabotano cavi e gasdotti sottomarini – le manipolazioni volte a indebolire la coesione sociale, il reclutamento di “utili idioti” e la creazione di organizzazioni di facciata.
I principali attori che attuano le operazioni di influenza cinese sono emanazioni del Partito, dello Stato, dell’esercito e delle aziende. All’interno del Partito, ciò include il Dipartimento di Propaganda, che supervisiona l’ideologia, controlla l’intero spettro mediatico e tutta la produzione culturale del Paese; il Dipartimento del Fronte Unito (UFWD); il Dipartimento di Collegamento Internazionale (ILD), che mantiene relazioni con i partiti politici stranieri; la Lega della Gioventù Comunista Cinese (CYL), fungendo allo stesso tempo da collegamento con i giovani, da incubatore per i futuri dirigenti del Partito e forza che può essere mobilitata quando necessario, anche se non è una struttura formale del Partito, ma un’organizzazione di massa. Anche l’Ufficio 610, che ha agenti in tutto il mondo che agiscono al di fuori di qualsiasi quadro giuridico per eliminare dissidenti e membri del movimento Falun Gong, un movimento religioso fondato e guidato da Li Hongzhi. Diffusosi in Cina nel corso degli anni novanta afferma di avere seguaci in più di 100 Paesi, ergendosi a un livello superiore ai qigong e promettendo la salvezza spirituale dei suoi seguaci fa emergere l’influenza spirituale della tradizione settaria radicata nelle religioni popolari. Nel 1999 la maggior parte dei movimenti qigong vengono etichettati come dottrine eretiche sovversive e pericolose per il benessere del popolo, innescando l’inizio di una dura repressione statale. All’interno dello Stato, due organismi in particolare sono coinvolti nelle operazioni di influenza: il Ministero della Sicurezza dello Stato (MSS), che è la principale agenzia di intelligence civile, e l’Ufficio Affari di Taiwan (TAO), responsabile della propaganda rivolta a Taiwan. All’interno dell’Esercito popolare di liberazione (PLA), la Forza di supporto strategico (SSF) è in prima linea, in particolare attraverso il suo Dipartimento dei sistemi di rete. Dispone delle risorse e le sono affidate missioni nel campo dell’informazione. Più precisamente, l’attore principale identificato in questo settore è la Base 311, con sede a Fuzhou, che si dedica all’attuazione della strategia delle “Tre Guerre” e gestisce anche società di media come copertura civile. Infine, le aziende pubbliche e private svolgono un ruolo importante nella raccolta dei dati necessari per decidere chi debba essere oggetto delle operazioni di influenza, quando e come. Le infrastrutture sono particolarmente utili nella raccolta dei dati – ad esempio edifici e cavi sottomarini – così come le nuove tecnologie: piattaforme digitali come WeChat, Weibo e TikTok, aziende come Beidou e Huawei e banche dati che forniscono informazioni su ciò che i ricercatori chiamano “tecno-autoritarismo” o “autoritarismo digitale” della Cina, sono tutte utilizzate per preparare e alimentare operazioni di influenza all’estero. Anche il Dipartimento dello Stato Maggiore Congiunto della Commissione Militare Centrale effettua operazioni di influenza e di intelligence.
L’infrastruttura cognitiva cinese
Le azioni intraprese da Pechino nelle sue operazioni di influenza e guerra cognitiva all’estero riguardano due obiettivi principali e non mutuamente esclusivi: in primo luogo, sedurre e affascinare il pubblico straniero creando un’immagine positiva della Cina, che può essere illustrata da quattro narrazioni specifiche – il “modello” cinese, la sua tradizione, benevolenza e forza – quest’ultima include anche infiltrazione e coercizione. L’infiltrazione mira a penetrare lentamente nelle società avversarie per ostacolare la possibilità stessa di un’azione contraria agli interessi del Partito. La coercizione corrisponde al progressivo ampliamento della diplomazia “punitiva” o “coercitiva” cinese verso una politica di sanzioni sistematiche contro qualsiasi Stato, organizzazione, azienda o individuo che minacci gli interessi del Partito.
Nel complesso, queste pratiche mirano alle seguenti categorie:
– Le diaspore, con il duplice obiettivo di controllarle – affinché non rappresentino una minaccia per il potere cinese (Pechino conduce una campagna transnazionale di repressione che, secondo l’ONG Freedom House, è la “più sofisticata, globale ed efficace al mondo”) – e di mobilitarle al servizio dei propri interessi.
– Diplomazia, con particolare attenzione a due aspetti. In primo luogo, l’influenza sulle organizzazioni internazionali e sulle norme: Pechino impiega risorse diplomatiche classiche insieme a operazioni di influenza clandestine (pressione economica e politica, cooptazione, coercizione e corruzione) per rafforzare la propria
influenza. In secondo luogo, la cosiddetta diplomazia dei “lupi guerrieri”: si riferisce alle posizioni più aggressive adottate dai portavoce del Ministero degli Affari Esteri e da una dozzina di diplomatici. Questi attacchi assumono forme sia classiche che relativamente nuove, basandosi in particolare sull’uso dei social network e sul ricorso disinibito a invettive, ammonimenti e persino intimidazioni. Nel complesso, questa svolta aggressiva della diplomazia cinese, negli ultimi anni si è rivelata controproducente e ha contribuito in larga misura al brusco deterioramento dell’immagine globale della Cina. Questa evoluzione è probabilmente sostenibile per gli attori coinvolti, poiché l’obiettivo non è quello di conquistare i cuori e le menti ma quello di compiacere Pechino per fare carriera.
– L’economia: la dipendenza economica è spesso la prima leva utilizzata dalla Cina. La coercizione economica
assume poi forme molto diverse: divieto di accesso al mercato interno cinese, embarghi, sanzioni commerciali e restrizioni agli investimenti interni, quote imposte alle regioni fortemente dipendenti dai turisti cinesi o boicottaggi di massa. Inoltre, Pechino impone sempre più spesso la censura come prerequisito
per accedere al suo mercato interno, molte aziende finiscono per cedere alle pressioni.
– La politica, con l’obiettivo di penetrare nei paesi target per influenzare i meccanismi di elaborazione delle politiche pubbliche. Il mantenimento di relazioni dirette con i partiti politici e le figure politiche influenti consente al Partito-Stato di infiltrarsi nei paesi target, di raccogliere sostegno ufficiale e non ufficiale e di aggirare eventuali blocchi all’interno dei governi utilizzando l’opposizione o personaggi pubblici “in pensione”. Pechino interferisce anche nelle elezioni (nell’ultimo decennio, la Cina potrebbe aver interferito in almeno 10 elezioni in 7 paesi).
– Cultura: in primo luogo attraverso la produzione e l’esportazione di prodotti culturali, come film, serie televisive, musica e libri, tutti potenti strumenti di seduzione cognitiva. L’influenza può essere esercitata anche sulle produzioni culturali straniere, in particolare sui registi cinematografici, come dimostra l’esempio di Hollywood: per evitare di irritare Pechino e mantenere così l’accesso all’enorme mercato interno cinese, molte case di produzione cinematografiche americane si autocensurano, tagliando o modificando scene dei film. Alcuni sono persino eccessivamente zelanti, assegnando i ruoli “buoni” a personaggi cinesi. L’accesso al mercato cinese è quasi certamente negato a qualsiasi artista che critichi il Partito-Stato.
– L’istruzione, in primo luogo attraverso le università, che sono uno dei principali obiettivi degli sforzi di influenza del Partito. Le sue leve principali sono: la dipendenza finanziaria, che porta all’autocensura nelle università; la sorveglianza e l’intimidazione degli studenti cinesi, dei docenti universitari e degli amministratori nei campus stranieri; le modifiche imposte ai contenuti dei corsi, ai materiali didattici o agli eventi in programma; e la definizione degli studi cinesi, incoraggiando l’autocensura e punendo i ricercatori critici. Il Partito-Stato utilizza anche le università per acquisire conoscenze e tecnologie, attraverso mezzi legali e palesi, come programmi di ricerca congiunti, ma anche attraverso azioni illegali e segrete di spionaggio. In un contesto di fusione civile-militare, alcuni programmi congiunti o ricercatori che ricoprono posizioni in decine di università occidentali aiutano involontariamente Pechino a costruire sistemi d’arma o tecnologie di sorveglianza che vengono utilizzate per opprimere la popolazione cinese. Su questo argomento, nel 2020 e nel 2021 sono scoppiati diversi scandali che hanno portato alla disdetta di diverse partnership. Infine, c’è l’importante attore dell’influenza cinese nell’istruzione legato alle università: gli Istituti e le Classi di Confucio che sono stati aperti in tutto il mondo e che, con il pretesto di insegnare la lingua e la cultura cinese, hanno accentuato la dipendenza, o sottomissione, di alcune università alla Cina, danneggiando la libertà accademica. Anche questi, occasionalmente, potrebbero essere stati utilizzati per attività di spionaggio.
Pechino ha investito notevolmente nella diplomazia culturale: per esempio, la rete degli Istituti Confucio, veri e propri centri di diffusione della lingua, cultura, propaganda e intelligence cinese, ha aperto circa 500 sedi in 160 Paesi e il loro numero è in continua espansione. In Italia, fino a oggi, ha aperto 10 sedi in alcuni dei più prestigiosi atenei e una a San Marino. Questi istituti rappresentano leve di soft power fondamentali: non solo promuovono il mandarino, ma offrono anche borse di studio agli studenti stranieri, contribuendo a plasmare le élite educative dei Paesi partner. Questa rete accademica di aule scolastiche costituisce il network di influenza che raggiunge il cuore del mondo accademico straniero.
Le agenzie di intelligence americane e britanniche, tra cui l’FBI, hanno classificato gli istituti Confucio come strumenti di intelligence economica della RPC. Nel 2018, il direttore dell’FBI Christopher Wray, ha riferito al Senato degli Stati Uniti che ogni studente inviato da Pechino viene sottoposto a controlli di partito e potrebbe essere incaricato di raccogliere dati di ricerca, come dettagliato nei rapporti dell’Economic Times FBI Director’s Warning on Chinese Students. In un suo recente rapporto, UK-China Transparency, ha intervistato alcuni sinologi e ha scoperto che più della metà degli studenti cinesi confermati nel Regno Unito è stata incaricata di monitorare i coetanei e mettere a tacere le discussioni su argomenti delicati come la repressione degli uiguri, lo status di Taiwan o le origini del SARS-CoV-2. Molti Paesi, dopo averli autorizzati, hanno chiuso gli istituti Confucio. Ad esempio la Svezia nel 2020, come riportato da University World News. Negli Stati Uniti, il National Defense Authorization Act (NDAA) per il 2023 ha vietato i finanziamenti del Dipartimento della Difesa (DoD) alle università che ospitano questi istituti: “qualsiasi struttura finanziata dal governo della RPC, indipendentemente dal nome, come delineato nei materiali di BasicResearch.Defense.gov NDAA sugli Istituti Confucio a meno che non ottengano una deroga dal Segretario della Difesa.” Ciò ha imposto audit e chiusure, con solo pochissimi istituti rimasti aperti nel 2025, secondo il rapporto del Government Accountability Office (GAO) sugli Istituti Confucio . L’Australia ha seguito l’esempio, utilizzando il Foreign Relations Act 2020 per annullare sei contratti universitari, secondo quanto riportato da Times Higher Education Australia Cancels Confucius Institute Contracts. Anche in Polonia, le Università di Breslavia e dell’Università Tecnologica di Varsavia hanno votato nel 2023 per non rinnovare la cooperazione, citando rischi per l’autonomia accademica, come riportato da TVP3 Wrocław e Gazeta.pl Poland Closes Confucius Institutes. Queste chiusure non sono state isolate; riflettono una crescente consapevolezza che ciò che è iniziato come soft power ma che cela un progetto di influenza culturale e cognitiva.
Ma la Cina non è rimasta con le mani in mano. Nel 2020, ha effettuato un’operazione di rebranding degli Istituti Confucio: la sede centrale dell’Hanban è diventata il Center for Language Education and Cooperation (CLEC) e i finanziamenti sono stati trasferiti alla Chinese International Education Foundation (CIEF), come analizzato da China Observers.
– Think tank: la strategia cinese in questo ambito è duplice. Pechino cerca di creare filiali estere dei think tank cinesi e di sfruttare i punti di riferimento locali che possono essere essi stessi think tank, con tre possibili scenari: partner occasionali che fungono da amplificatori sui mercati locali delle idee, alleati circostanziali che diffondono le narrazioni del Partito e complici che condividono una visione del mondo comune e interessi convergenti con il PCC.
– I media, poiché l’obiettivo esplicito di Pechino è quello di stabilire “un nuovo ordine mondiale dei media”. Infatti, il governo ha investito 1,3 miliardi di euro all’anno dal 2008 per imporre un controllo più stretto sulla propria immagine globale. I principali media cinesi hanno una presenza globale, in diverse lingue, in diversi continenti e su tutti i social network, compresi quelli bloccati in Cina (Twitter, Facebook, YouTube e Instagram), e investono ingenti somme di denaro per aumentare artificialmente il loro pubblico digitale.
Pechino cerca anche di controllare i media in lingua cinese all’estero, cosa che si è rivelata così efficace che il PCC ora gode di fatto di un quasi monopolio tra di essi, e cerca anche di controllare i media mainstream. Infine, il Partito-Stato è interessato a controllare i contenitori, esercitando la propria influenza su ogni fase della catena di approvvigionamento globale delle informazioni, prendendo di mira televisioni, piattaforme digitali e smartphone. Per l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) in particolare, e per il Partito-Stato in senso più ampio, i social media sono un elemento della sua strategia di guerra dell’informazione. I loro sforzi per il controllo cognitivo hanno impatti complessi sia sugli individui che sulla società, che possono utilizzare per espandere la sfera di dominio e trasformare un Paese indipendente in una relazione neocoloniale con un’altra entità. Gli strumenti di percezione e manipolazione delle informazioni possono essere utilizzati per raggiungere vari obiettivi politici, economici, militari e di altro tipo, che in alcune interpretazioni costituiscono una forma di difesa preventiva. Se è possibile indebolire il proprio avversario o convincere quest’ultimo che sono disponibili solo determinate alternative, allora il conflitto convenzionale può essere evitato del tutto. Le tecnologie Internet consentono un utilizzo asimmetrico di tali strumenti, con attori statali e non statali più piccoli ora in grado di influenzare entità molto più grandi a costi modesti, a grande distanza e spesso in modo anonimo. I moderni conflitti ibridi e la loro influenza sul più alto livello del pensiero e dei valori umani costituiscono la base della preoccupazione per le future traiettorie di sicurezza. Il campo di battaglia in tali guerre è il territorio del cervello umano. I fenomeni delle operazioni cognitive come obiettivo coordinato (target), ambito, luogo e azioni parallele e/o consequenziali nel tempo, sostengono l’influenza sul più alto livello del pensiero, della visione, dei valori, della conoscenza e degli interessi umani. Le operazioni cognitive influenzano la percezione della realtà e il processo decisionale delle persone, guidando gruppi di persone e destinatari mirati verso le condizioni desiderate da un avversario geopolitico. In un conflitto ibrido
in cui vengono impiegati strumenti cognitivi, tutti sono un bersaglio, anche se teoricamente il Paese è in pace. Le operazioni cognitive possono anche essere strumenti efficaci per azioni preventive volte a ridurre i rischi e le minacce delle guerre convenzionali. Allo stesso tempo, le operazioni cognitive possono essere strumenti di espansione o addirittura di colonizzazione specifica attraverso la trasformazione delle prospettive, dei valori e degli interessi dei gruppi target. Gli autori definiscono il controllo o l’espansione cognitiva ibrida come un processo di influenza diretta e controllata sul sistema di valori, prospettive, conoscenze, spazio mentale, coscienza personale e sociale. Tale controllo può offrire nuove opportunità per la colonizzazione statale nell’era digitale. Le operazioni cognitive mirano a gestire le visioni del mondo, gli interessi e i valori delle persone, a differenza della conquista e della colonizzazione di un territorio o dell’economia di uno Stato. Cioè, se in passato la colonizzazione comportava la conquista fisica di territori e sistemi economici, nel mondo moderno entrambi possono essere controllati trasformando la sfera cognitiva dei gruppi target attraverso l’uso di
– Manipolazione delle informazioni, ricorrendo ad account falsi sui social network per diffondere la propaganda del Partito nei media, troll e astroturfing (per simulare movimenti popolari spontanei) e a numerosi “commentatori di Internet” (falsamente etichettati come “esercito dei 50 centesimi”) che vengono pagati per “guidare” l’opinione pubblica. Generalmente controllati dall’Esercito popolare di liberazione o dalla Lega della gioventù comunista, i troll difendono, attaccano, suscitano polemiche, insultano o molestano i loro bersagli. Un altro modo per simulare l’autenticità è quello di far pubblicare contenuti da terzi in cambio di denaro (“content farm”, acquisto di messaggi, di influenza su un account, di un account o di una pagina, o reclutamento di “influencer”). Dal 2019, Twitter, Facebook e YouTube avevano iniziato a identificare campagne coordinate provenienti dalla Cina. Di conseguenza, decine di migliaia di account falsi furono sospesi: alcuni erano “inattivi” da tempo, altri erano stati acquistati o rubati, la maggior parte dei quali amplificava la propaganda cinese e attaccava gli Stati Uniti (in cinese e in inglese).
Con il ritorno alla Casa Bianca del presidente Trump, queste attività di monitoraggio dei profili e dei contenuti pubblicati sulle piattaforme social sono state abolite, e molti account sono tornati ad avere immagini del profilo e post generati dall’intelligenza artificiale, una pratica ormai regolarmente osservata nelle operazioni cinesi, russe e americane su tutti i principali social network. Inoltre, un aspetto importante di queste campagne è che non si limitano a difendere la Cina: la promozione del modello cinese va di pari passo con il discredito di altri modelli, in particolare delle democrazie liberali, come hanno fatto per anni le operazioni di influenza russe. L’Esercito popolare di liberazione è al centro di queste manovre, utilizzando i social network da un lato per condurre operazioni di influenza “aperte” e diffondere propaganda, spesso mirate alla deterrenza e alla guerra psicologica, e dall’altro per condurre operazioni clandestine e ostili contro obiettivi stranieri.
In definitiva, la Cina ha dato vita a un’infrastruttura cognitiva parallela a quella occidentale, che primeggia senza eguali tra le giovani generazioni. Il sistema è pensato per durare almeno 20-30 anni, secondo molte stime analitiche. I Paesi del Sud globale diventano spazio di competizione narrativa e non solo economica. In questo ambiente la “guerra cognitiva” non è qualcosa di astratto, sebbene invisibile ai cittadini, ma una strategia politica per conquistare le menti dei futuri leader plasmata da investimenti, media, piattaforme e infrastrutture cibernetiche sempre più invasive.




