Si presta a molte letture a cavallo tra complottismo e politica la bufera su Francesco Saverio Garofani (a destra nella foto, a sinistra Enrico Maria Ruffini), che secondo La Verità avrebbe parlato di scenari politici in vista delle elezioni del 2027 in una cena privata con una ventina di persone. Una conversazione come molti altri italiani fanno ogni giorno, se non fosse che l’ex deputato PD è da anni stretto collaboratore del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prima per gli affari istituzionali (2018) e poi per il Consiglio Supremo di Difesa (2022). È questo a rendere l’auspicio di «una grande lista civica nazionale» più interessante di tutte le altre cene tra amici, soprattutto se collegato al «provvidenziale scossone» che Garofani avrebbe immaginato come utile complemento alla lista civica.
Un primato in arrivo
Il punto di partenza è necessariamente la durata del governo Meloni, che quando La Verità pubblica l’articolo è in sella da 1.118 giorni, terzo in assoluto dopo i Berlusconi II e IV. Se la legislatura arriverà alla scadenza naturale, nel giugno 2027 l’esecutivo Meloni ne avrà totalizzati più o meno 1.700, piazzandosi al secondo posto assoluto nella storia dell’Italia unita, subito dietro gli inarrivabili 7.574 di Benito Mussolini ma solidamente davanti ai 1.412 del Berlusconi II, ai 1.304 di Lanza (nel 1869-1873), ai 1.291 del Giolitti III, ai 1.287 del Berlusconi IV e ai 1.097 del Giolitti IV (che, essendo separato dal precedente di di oltre un anno, non si cumulano). Tutti gli altri 127 governi italiani sono rimasti sotto i mille giorni. Festeggiare prima del traguardo forse porta male, ma è chiaro che da una prospettiva meramente quantitativa qualunque opposizione si preoccuperebbe di cosa fare di fronte a tanta solidità. Soprattutto se, come nel caso del centrosinistra italiano, le proprie vittorie alle urne siano state pochissime, o per la precisione una sola: quella di Romano Prodi, il 21 aprile 1996.
La tradizione del ribaltone
Prodi era sostenuto dall’Ulivo, che comprendeva un solo partito tradizionale (PDS) e quattro altre formazioni (le liste personali di Prodi e Dini, il Movimento per l’Ulivo, i Verdi), più l’appoggio esterno di repubblicani e Rifondazione Comunista, che lo fece cadere votandogli contro in un voto di fiducia. Erano passati 886 giorni, abbondantemente meno di quelli di Meloni. Il ribaltone per eccellenza fu però quello subito da Silvio Berlusconi nel dicembre 1994, quando fu costretto alle dimissioni dallo sfilarsi della Lega. Al clamoroso divorzio avevano contribuito l’avviso di garanzia giunto a Berlusconi il 22 novembre dal mitico pool di Mani Pulite e il pressing del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro su Umberto Bossi. Chiunque abbia almeno cinquant’anni, un po’ di memoria e un minimo di interesse per la politica non farà fatica interpretare l’Ulivo come la «grande lista civica nazionale» e l’avviso di garanzia come il «provvidenziale scossone». Per quanto fondere due casi in uno sia una forzatura interpretativa, è altrettanto chiaro che nel leggere quelle frasi al centrodestra siano fischiate le orecchie. Soprattutto perché il sen dal quale la voce era fuggita è oggettivamente vicino al Quirinale.
Corsi e ricorsi?
Giorgia Meloni ha sempre proclamato di non essere ricattabile, nel senso di non avere scheletri nell’armadio. Fortunatamente per la democrazia, tutti i tentativi di usare contro il governo la sua famiglia e la sua area politica sono falliti. Resta però il fatto che la determinazione del governo sulla riforma della magistratura, separando chi accusa da chi giudica anche in termini di autogoverno e disciplina, crea un contesto nel quale non è difficile immaginare la tentazione di cercare uno «scossone» giudiziario di qualche tipo. Secondo una delle immortali battute di Kissinger, «anche i paranoici hanno dei nemici» non immaginari. Né può tranquillizzare il governo il fatto che a smentire la conversazione tra amici non sia né il protagonista Garofani né uno dei suoi commensali, ma addirittura il presidente della Repubblica: se il Quirinale non c’entra, perché non lasciare che l’incauto collaboratore si difenda da solo? Anche nella più perfetta buona fede, sembra uno di quei casi nei quali la toppa è peggio del buco.
Giù le mani dal Quirinale?
A proposito di toppe mal riuscite: siamo sicuri che la discesa in campo del centrosinistra aiuti Mattarella? Invocare il rispetto istituzionale è senza dubbio cosa buona e giusta, ma un osservatore imparziale potrebbe argomentare che per essere credibili bisognerebbe dimostrare di averlo praticato con rigore per primi. In questo senso, il M5S, autore di memorabili attacchi a Giorgio Napolitano, immediato predecessore di Mattarella, dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Il PD, in quanto erede di chi attaccò sguaiatamente Leone e Cossiga, potrebbe anch’esso astenersi dal dare lezioni di morale. Il punto non è se e quanto gli insulti fossero meritati, ma solo la ricorrente sensazione che ci siano due pesi e due misure. Oppure, parafrasando Giolitti, che «il bon ton si applica agli amici e si interpreta per i nemici». Il che trasforma la questione etica in politica: «giù le mani dal nostro Quirinale», con tutto ciò che comporta.
Un gerrymandering all’italiana?
Giulio Andreotti, uno che il Quirinale lo avrebbe meritato davvero, è spesso ricordato per la battuta sul fatto che a pensar male si faccia peccato, ma spesso si azzecca. Nel caso Garofani, la culpa in commentando di Fratelli d’Italia – non in importa se Bignami, Donzelli, Fazzolari – sembra assai minore della conferma del timore dell’opposizione di perdere una sponda sul Colle. Che Mattarella lo sia o meno è del tutto irrilevante, perché basta la percezione a fare il danno. Quel che la cena privata sembra indicare è che all’interno del centrosinistra si sia in qualche modo rassegnati all’idea di perdere le elezioni del giugno 2027 e, con esse, la possibilità di imporre un proprio candidato nella corsa alla Presidenza della Repubblica. Che, è bene ricordarlo, si terrà nel 2029. Evidentemente qualcuno teme che la «grande lista civica nazionale», con o senza «provvidenziale scossone», riempirebbe questi quasi quattro anni di sconfitte a ripetizione, in base al nenniano «piazze piene, urne vuote». Ed ecco che la battaglia per il Quirinale diventa la versione italiana del redistricting o gerrymandering statunitense: un modo per imporre – o almeno garantire – equilibri politici a prescindere dalla volontà popolare diffusa. Se così fosse, dovrebbe preoccuparsi anche chi pensa di averne un vantaggio a breve termine.




