C’è una curiosa coincidenza tra i casi della Bbc nel Regno Unito e del Fatto Quotidiano in Italia. Le due testate, di levatura e rilevanza molto diverse, sono state accomunate dall’accusa di scorrettezza: la prima per il montaggio impreciso di un servizio su Donald Trump, la seconda per l’errata attribuzione a Paolo Borsellino di dichiarazioni sulla separazione delle carriere dei magistrati.
Nel pezzo di Bbc incriminato, un discorso di Trump sull’assalto a Capitol Hill è stato montato in modo da dare l’impressione che il presidente incitasse alla violenza: i vertici hanno ammesso “errori” ma negato faziosità istituzionale, tanto poco credibilmente da doversi dimettere. Il Fatto ha attribuito a Borsellino e Giovanni Falcone, come pronunciate in trasmissioni e interviste, frasi semplicemente inesistenti, nel caso di Falcone sovvertendo addirittura l’opinione del magistrato.
La questione italiana, più dì quella britannica, si configura come la tipica fake news. Ma è l’altra a identificare il problema principale della disinformazione, cioè la tendenziosità con cui, a partire da fonti reali, si possono dire cose subdole, malevole, equivoche, ingannevoli. Lo potremmo chiamare il metodo Report. Il programma di Ranucci, al di là delle querele e delle accuse più gravi che gli vengono rivolte, è mirato in modo quasi monotematico ad attaccare esponenti di centro destra, mescolando indizi vaghi, comportamenti non esemplari, marachelle, quisquilie prive di rilievo legale, costruendo così uno scenario che porta a condannare senza prove.
Il caso presunto di Beatrice Venezi è esemplare: la tesi per cui la direttrice d’orchestra è stata incaricata a Venezia in virtù delle sue simpatie politiche per FDI e non delle qualità professionali e artistiche poggia su testimonianze inammissibili, quali quelle degli orchestrali, che alle attuali regole non possono scegliere bottom up chi li guida, o di aspiranti al prestigioso ruolo direttivo, mossi ovviamente da ambizione personale. Al fondo, resta però la vera questione: questa nomina si distingue, nel metodo oltre che nel merito, da quanto è finora avvenuto con tutte le altre del comparto legato al MIC? No. E allora? Idem dicasi per il chiacchieratissimo caso di Agostino Ghiglia e della privacy su cui ci siamo già diffusi a sufficienza: un organismo di nomina politica, i cui membri hanno legami politici.
Lo chiamiamo metodo Report non certo perché la trasmissione Rai sia l’unica ad applicarlo, diciamo anzi che è quasi la regola, nell’informazione almeno italiana, ma perché Sigfrido Ranucci, dopo l’attentato che ha subito, è stato immediatamente e anche trasversalmente eretto a simbolo della libertà di stampa. Della quale abbiamo un’idea molto diversa. Quella di un lavoro minuto, preciso, non diciamo obiettivo ma non così smaccatamente fazioso, che riporti i dati concreti in modo conciso, non ridondandoli per due-ore-due di broadcasting.
Si potrebbe obiettare che questo è il prodotto e che c’è un mercato a cui piace. Si potrebbe se fosse vero, ma non è così. I programmi Rai, come la gran parte dell’informazione italiana, vivono infatti non perché ci siano pubblici sufficienti a sostenerli ma per finanziamenti pubblici, esattamente come tutto il comparto media-spettacolo-cultura, in virtù di una loro ineludibile necessità democratica. Con le tasse dei cittadini si pagano gli stipendi di giornalisti, artisti, professori: si potrebbe pretendere che, in cambio, svolgano il loro lavoro in modo rispettoso di tutti i cittadini, o almeno della loro maggioranza.






