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Waymo arriva in autostrada: il vero salto dell’auto autonoma non è tecnologico, è politico

Guida autonoma: la tecnologia è pronta, è la politica a non esserlo. Che succede negli Stati Uniti e che cosa non succede in Italia. L'intervento di Gianmarco Gabrieli

A volte le rivoluzioni non fanno rumore. Succedono in un giorno qualunque, mentre nessuno guarda. È quello che è accaduto quando Waymo, l’azienda di Alphabet che da vent’anni lavora sulla guida autonoma, ha annunciato che i suoi robotaxi ora circolano anche in autostrada nelle aree metropolitane di San Francisco, Phoenix e Los Angeles.

Per chi osserva questo settore è il momento in cui la guida autonoma smette di essere un esercizio sperimentale e diventa una tecnologia matura. Lo dico con una nota personale: solo un paio di mesi fa li ho visti in azione a San Francisco. Le auto si muovevano nel traffico con naturalezza, si fermavano, ripartivano, interpretavano gli incroci e i pedoni senza esitazioni. Niente effetti speciali: solo tecnologia solida che convive con la città. Ci sono anche episodi curiosi, come il gabbiano che rimane immobile davanti all’auto e che il sistema rileva correttamente come un ostacolo che impedisce qualsiasi avanzamento finché non si sposta. Proprio quell’esperienza diretta conferma un fatto che spesso sfugge nel dibattito pubblico: la tecnologia è pronta. È la politica a non esserlo.

Waymo è anni avanti rispetto a qualsiasi altro concorrente. Mentre per anni si è parlato delle promesse futuristiche di Tesla, l’unico sistema di livello 4 davvero operativo è quello di Alphabet. Il salto di qualità non dipende solo dalle prestazioni del software ma dalla capacità di operare in modo affidabile in contesti complessi, sia urbani sia autostradali. Eppure leggere la vicenda come una sfida tra algoritmi significa perderne il senso profondo.

Oggi il tema centrale non è più ingegneristico ma regolatorio, assicurativo e istituzionale. Negli Stati Uniti il quadro si sta consolidando rapidamente. In California e in Arizona le autorità locali hanno definito procedure chiare per autorizzazioni, responsabilità e copertura assicurativa. Le aziende dialogano con i regolatori, condividono dati, analizzano gli incidenti e adattano i sistemi sulla base delle evidenze.

In Europa succede l’opposto. Manca una cornice unica, ogni Paese procede per conto proprio, i tempi sono lunghi, le norme non contemplano l’assenza del conducente umano e il sistema assicurativo è ancora modellato su un mondo che non c’è più. La guida autonoma non avanza perché mancano le autorizzazioni, non perché manchi la tecnologia. E il caso italiano è ancora più emblematico.

L’Italia potrebbe essere un hub ideale. Abbiamo una filiera di componentistica di alto livello, infrastrutture utili alla sperimentazione e università capaci di contribuire alla ricerca. Eppure non esiste una sola area urbana dedicata ai robotaxi, non esistono procedure snelle per i test e il dibattito resta fermo su preoccupazioni che altrove sono già state affrontate e risolte con dati e assicurazioni specializzate.

Rischiamo di ripetere quanto accaduto in altri settori strategici: semiconduttori, cloud, intelligenza artificiale, biotech, cybersecurity. L’Europa ha spesso regolato senza sperimentare e sperimentato senza coordinare. La guida autonoma non è un vezzo tecnologico ma una delle filiere industriali più importanti del prossimo decennio. Significa nuove catene del valore, nuovi servizi e nuovi posti di lavoro: flotte robotaxi, manutenzione software, telemetria, mappe avanzate, centri di supervisione remota, mobilità come servizio.

Waymo, con l’ingresso in autostrada, ha superato il punto di non ritorno. La fase sperimentale è finita. Ora la sfida è politica, non tecnica. Gli Stati Uniti corrono, la Cina accelera, e l’Europa rischia di arrivare quando la partita sarà già chiusa.

La domanda per l’Italia è semplice: vogliamo essere spettatori o protagonisti?

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