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Il fatto quotidiano moda

Che ci azzecca il Fatto quotidiano di Travaglio e Gomez con il Brand Journalism Festival?

Tra Unipol, Fatto quotidiano e Dagospia c'è qualche contraddizione di troppo nel Brand Journalism Festival. La lettera di Claudio Trezzano

Caro direttore, siamo di nuovo sotto Brand Journalism Festival, ovvero la festa del giornalismo brandizzato (per non usare altri termini che so che ti staranno ronzando in testa). Devi sapere che io un salto virtuale al BJF24 lo avevo pure fatto, seguendomi online un panel intero (“E tu come fai Brand Journalism?”) così da superare eventuali preconcetti che, diciamocelo, aleggiano tra gli addetti ai lavori. Mi aveva per esempio sorpreso che la cartelletta con le domande e le tracce della discussione che teneva in mano la moderatrice fosse griffata “money.it”. Ma in fondo ero pur sempre al Brand Journalism Festival e la moderatrice era appunto direttore, o direttrice, non so, di “money.it”.

C’è poco da ghignare, perché una testata seria come una delle maggiori agenzie di stampa italiana l’AdnKronos definisce in tali termini l’edizione 2025: “Una rottura necessaria, un imperativo categorico. La seconda edizione del Brand Journalism Festival, promosso da Social Reporters, ha imposto un dibattito radicale sul panorama mediatico e imprenditoriale, evidenziando l’urgenza ineludibile di un nuovo patto tra informazione e impresa”.

Secondo il reporter di AdnKronos si è trattato di “un momento di profonda analisi, chiamando a ridefinire il ruolo del racconto aziendale. L’obiettivo non è più solo comunicare, ma costruire un dialogo basato su autenticità, competenza e senso di verità, superando la logica del “giornalismo contro” e del mero “comunicato patinato”.

E, ancora: In questo scenario un ruolo cruciale lo gioca il Brand Journalism: su ambiti tematici come innovazione tecnologica o campagne di sensibilizzazione su temi sociali e ambientali, le aziende iniziano ad essere percepite come fonti potenzialmente affidabili. “Il Brand Journalism, quando è autentico, non è marketing mascherato, ma un atto culturale di responsabilità”, ha dichiarato Ilario Vallifuoco, curatore e fondatore del Festival.

Tanti gli speaker anche all’edizione 2025: c’era il vicedirettore di AdnKronos Fabio Insenga, come pure Giulio Gambino, direttore di The Post Internazionale, Lavinia Spingardi di Sky, Alice Mentana (figlia di Enrico) Ceo del gruppo editoriale Open, Lorenzo Lo Basso della Rai, la direttrice responsabile di GreenMe Simona Falasca… con le rispettive testate nel ruolo di media partner del Brand Journalism Festival.

Tanti giornalisti, insomma, tanti giornali (spiccava soprattutto ancora una volta la presenza come media partner dell’evento del Fatto Quotidiano, il giornale che Travaglio ha fondato al grido di non voler padroni e di basta markette politiche e aziendali) ben mischiati per aderire appieno allo spirito dell’iniziativa coi rappresentanti del mondo corporate: c’era infatti il Responsabile Media Relations di Unipol, il Chief of Staff and External Affairs di Iliad, il Direttore Marketing di IBM, la Responsabile della comunicazione di Hera, il Corporate Communication di Lactalis Italia, il Digital communication manager di Edison, la Direttrice della comunicazione aziendale di Purina Sud Europa e il direttore del Master in Giornalismo della Lumsa, perché ovviamente se la professione va verso questa direzione, le scuole che formano i professionisti di domani devono essere sul pezzo.

Insomma, tutta questa pubblicità mediatica mi ha fatto venire voglia di recuperare gli appunti che avevo preso al panel della passata edizione. senza troppe sorprese, l’evento si era rivelato un enorme spottone a favore delle aziende. Le varie spokesperson si passavano il microfono e lo tenevano in ostaggio quanto volevano per raccontare quanto fossero belle, fighe e attente alla comunicazione le loro aziende. Comunicazione che, attenzione, è ovviamente attenta al contenuto: insomma, la fuffa è bandita, la notizia c’è sempre. Perché poi quotidianamente fiocchino decine e decine di comunicati stampa vuoti e privi di dati con queste premesse è un mistero. In quella occasione Unipol comunque aveva detto di “essere già editore” (in effetti proprio là ho scoperto che esiste una loro testata, Changes) affermando che siccome i media tradizionali faticano ad accettare la commistione tra giornalismo e branded aveva deciso di cucinare l’informazione direttamente in casa.

Al fianco di Unipol (che pur elogiando il brand journalism è tra i maggiori dispensatori di pubblicità per il giornale Dagospia, che evidentemente è dedito al brand journalism?) c’era pure Sara Assicurazioni che raccontava le proprie “case histories” come le chiamano in Bocconi e dintorni. “Siamo stati sponsor del Giro d’Italia”, nel caso di specie. A riprova che al Brand Journalism Festival ciascuno parlava un po’ di quello che voleva. “C’è anche una piattaforma con contenuti trasmessi attraverso i nostri canali come una vera e propria media company”. L’impressione che avevo avuto in quella occasione, direttore, è che più che al Brand Journalism le corporate fossero già indirizzate a comunicare in prima persona, senza nemmeno più passare dagli editori puri che pure bramano soldi, con le vendite dei quotidiani che infrangono record su record (tutti negativi) e quelli del mondo online alle prese con Google che ora con l’AI li taglia fuori dai risultati di ricerca.

A proposito di Google, una curiosità: prima di scriverti questa letterina ho fatto qualche ricerca sull’edizione di quest’anno dato che non ho avuto modo di partecipare. Ebbene, cercando Brand Journalism Festival su Google Notizie (che screma i risultati facendo emergere quelli delle testate) appariva il già citato articolo di AdnKronos dai caratteri entusiastici, datato 11 novembre, stessa data di un pezzo di un altro main media partner dell’evento, Fortune, e poi è arrivato l’articolo di The Post Internazionale. I media partner “non main”, da Class Editori con MilanoFinanza a Wired fino al Fatto Quotidiano, si sono limitati all’articolo pre evento andato online 3 settimane fa ma a quanto pare non hanno poi coperto l’evento stesso, dato che non risultano pezzi post.

L’impressione insomma, direttore, è che quando ci sono di mezzo branded e accordi commerciali gli articoli non escano solo se c’è la notizia, ma quando ricorrono le condizioni contrattuali, con buona pace dei canoni giornalistici. Ma ho avuto anche un’altra impressione, che ovviamente può essere sbagliata: ovvero che dopo lo scorso anno, che tra gli speaker era apparso pure Peter Gomez, Il Fatto se ne sia un po’ distaccato. Lo scorso anno peraltro il direttore del fattoquotidiano.it partecipò a un panel con gli omologhi del Domani e di Fanpage Emiliano Fittipaldi e Francesco Cancellato e con la vicedirettrice de La Repubblica, Annalisa Cuzzocrea. Tutte testate che non hanno elargito speaker nell’edizione 2025. Il Branded Journalism sta già passando di moda?

Ah, saperlo direttore: vedremo chi animerà l’edizione 2026…

Saluti,

Claudio Trezzano

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