L’Opec+, il gruppo che riunisce alcuni dei principali paesi esportatori di petrolio, ha deciso di alzare i livelli produttivi per il mese di dicembre di altri 137.000 barili al giorno, la stessa quantità già prevista per ottobre e novembre. Per il trimestre successivo, però – cioè da gennaio a marzo del 2026, un periodo solitamente caratterizzato da bassa domanda -, l’aumento dell’output verrà sospeso per evitare un eccesso di offerta sul mercato.
GLI OBIETTIVI DELL’OPEC+ E LE SANZIONI AMERICANE SULLA RUSSIA
L’organizzazione, capeggiata dall’Arabia Saudita e dalla Russia, ha dovuto trovare un equilibrio tra la volontà di recuperare quote di mercato – specialmente nei confronti degli americani – dopo un lungo periodo di tagli volontari, da una parte, e la necessità di sostenere i prezzi internazionali del petrolio, dai quali dipendono le loro entrate, dall’altra. A questo si aggiungono le recenti sanzioni statunitensi sulle società russe Rosneft e Lukoil, che renderanno ancora più difficile per Mosca vendere il proprio greggio e partecipare ai piani dell’Opec+.
COME VANNO I PREZZI DEL PETROLIO
A seguito dell’annuncio dell’Opec+, i prezzi del petrolio sono cresciuti leggermente: il Brent (cioè il contratto basato sul mare del Nord) si scambia all’incirca a 65 dollari al barile, mentre il West Texas Intermediate (cioè il riferimento americano) a 61 dollari.
Il 20 ottobre scorso il greggio era sceso ai minimi da cinque mesi, intorno ai 60 dollari al barile, per via dei timori sull’eccesso di offerta. Nemmeno le sanzioni statunitensi del 22 ottobre su Rosneft e Lukoil, le due compagnie petrolifere più grandi della Russia, hanno provocato un’impennata dei prezzi, ma soltanto un aumento modesto.
LE PROSPETTIVE TRA RUSSIA E NIGERIA
Avendo deciso di sospendere gli aumenti della produzione nel primo trimestre del 2026, anche l’Opec+ pensa che il mercato petrolifero rischi di dirigersi verso una condizione di oversupply. D’altra parte, le conseguenze effettive delle nuove sanzioni sulla Russia non sono ancora chiare: non è chiaro, cioè, come si comporteranno l’India e la Cina, le due principali acquirenti di greggio russo.
Inoltre, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha minacciato un intervento militare in Nigeria e l’interruzione degli aiuti, accusando il governo di non fare abbastanza per proteggere i cittadini cristiani dallo “sterminio di massa” – così l’ha definito – commesso dai gruppi islamisti. Azioni di questo tipo potrebbero avere un impatto sull’industria estrattiva nigeriana: il paese è il maggiore produttore di petrolio in Africa e un membro dell’Opec.
LA SITUAZIONE DELLE BIG OIL
Tra prezzi bassi e fiacchezza della domanda, il momento non è particolarmente positivo nemmeno per le grandi società petrolifere statunitensi ed europee. Come ha scritto l’Economist, dall’inizio dell’anno scorso anno l’indice S&P 500, che raccogliere le cinquecento aziende americane a maggiore capitalizzazione ha prodotto un rendimento totale del 48 per cento, dividendi inclusi; ma i pesi massimi dell’oil & gas, tra cui Chevron ed ExxonMobil, hanno registrato un rendimento di appena il 14 per cento, e anche le rivali europee hanno sottoperformato.
“Un chiaro segnale che gli operatori petroliferi sono pessimisti riguardo alle prospettive di crescita del loro settore è il fatto che stanno restituendo denaro agli azionisti attraverso dividendi e riacquisti, invece di investirlo nell’espansione della produzione”, ha fatto notare il settimanale britannico. Secondo Rystad, l’anno scorso ExxonMobil, Chevron, Eni, Bp, Shell e TotalEnergies hanno versato agli azionisti 120 miliardi di dollari, una cifra record e pari al 56 per cento del loro flusso di cassa operativo combinato: si tratta di una quota molto superiore a quella registrata nel decennio precedente, sul 30-40 per cento.






