Gli animalisti contrari alla sperimentazione animale sbagliano, poiché questa pratica è purtroppo ancora necessaria, ma senza di loro i ricercatori non si sarebbero mai posti il problema di ridurla e migliorarla. Gli ecologisti lanciano molti allarmi senza produrre prove scientifiche consistenti, ma anche grazie a loro la qualità dell’aria e dell’acqua stanno migliorando. Il terzomondismo rimprovera assurdamente agli occidentali di aver portato benessere e sviluppo, ma ha aperto il tentativo di ridurre disuguaglianze inammissibili.
Si può imparare molto dai torti e dai limiti di chi non la pensa come noi. Ci possiamo chiedere se, senza la Flotilla e le dimostrazioni pubbliche, la politica italiana avrebbe aperto un vero dialogo sul riconoscimento dei diritti dei palestinesi e sulla gravità della reazione israeliana all’aggressione terroristica subita il 7 ottobre. E se, senza i pur ondivaghi atteggiamenti di Trump, oggi staremmo provando a parlare di pace in Medio Oriente e in Ucraina.
Si può sostenere che i manifestanti imbarcati siano dei pacifisti, magari illusi ma apprezzabili poiché perseguono il loro sogno giovanile anche in una zona cronicamente bellicosa. Oppure che siano dei politicanti filopalestinesi, complici morali di Hamas e che stiano ostacolando la già complicata cessazione delle ostilità per via diplomatica. Si può dire che la missione abbia lo scopo di cercare di portare aiuti umanitari a Gaza oppure che sia una dimostrazione simbolica e ideologica.
Tutte queste interpretazioni possono essere fornite senza particolari oneri di prova, le ultime due sono persino compatibili da loro e confermate contestualmente dalle stesse persone imbarcate, quelle che il ministro Tajani ha definito “passeggeri” con forse involontaria ironia. Poi c’è un piano probatorio, specialmente per le prime due, che prova a suffragare le tesi con dati concreti, in particolare il legame tra Hamas e la missione.
Si può sostenere, come ha fatto con equilibrio e garbo purtroppo rari il ministro dell’Interno Piantedosi, che i manifestanti scesi in piazza a sostegno di Flotilla e contro l’intervento israeliano siano animati da “nobili intenzioni”, avvertendoli nel contempo che non saranno però ammessi atti di violenza. Si può, legittimamente ma sgradevolmente, continuare ad addossare loro la responsabilità di assecondare le violenze, quando non provocarle, e il sospetto di muoversi per ostilità politica, utilizzando la tragedia di Gaza e dei palestinesi soltanto a scopo strumentale.
Ci sono differenti livelli sui quali si possono aprire differenze e divergenze. Uno riguarda la decisione di puntare prioritariamente sui torti degli avversari oppure illuminare anche, e magari prima, la parte di ragioni che se ne condivide. Uno investe la forma che si utilizza per manifestare le proprie opinioni, scegliendo tra parola e azione, garbo e isteria, aggressione e rispetto. Poi c’è la responsabilità che si assume in funzione del proprio ruolo, pubblico e privato, quando ci si relaziona o riferisce agli “altri” diversi o distanti da noi. C’è infine il piano dell’onestà e dell’impegno intellettuali che si spendono per sostenere le proprie affermazioni e posizioni.
In questo tempo, i piani e le scelte si mescolano. L’abbordo delle navi da parte israeliana e la risposta della missione sono stati improntati in generale a un contenimento confortante, forse frutto di accordi intercorsi riservatamente, ma anche così fosse non inficia l’apprezzamento, al contrario. Altre posture, per usare un termine alla moda, ad esempio il modo in cui il premier ha voltato le spalle ai giornalisti a margine dell’Euco di Copenaghen, ribadiscono il livello di tensione. Speriamo che il primo atteggiamento prevalga.