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Che cosa succederà a Generali con Mediobanca che va al Monte. Parla il prof. Sapelli

Il passato e il presente di Mediobanca. Il successo di Mps con Lovaglio. Il ruolo del governo. E le prospettive per Assicurazioni Generali. Conversazione con Giulio Sapelli, storico, economista e saggista

Al netto delle adesioni finali dell’opas su Mediobanca, per cui ci sarà tempo fino alla prossima settimana, la mossa di Monte dei Paschi di Siena ha avuto successo. Nel consiglio di amministrazione di Piazzetta Cuccia, l’ad Alberto Nagel ha annunciato le dimissioni. L’economista e storico Giulio Sapelli spiega storia, traiettorie e prospettive di Mediobanca, non risparmiando critiche.

Partiamo dal futuro di Mediobanca. Lei ha parlato recentemente di una trasformazione del capitalismo italiano: cosa vuol dire?

Direi che le cose stanno tornando al loro posto. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un grande cambiamento: l’uscita di scena delle grandi imprese italiane. Un tempo erano protagoniste dei mercati, oggi non ci sono più, distrutte dall’incapacità di molti manager e da azionisti poco lungimiranti. Le poche realtà di dimensioni ancora significative sono quelle legate allo Stato, ma anch’esse si sono trasformate in conglomerati disintermediati. Se guardiamo all’energia, Enel ha venduto gran parte delle centrali: non è più un colosso integrato, ma un attore parziale in un settore che una volta dominava. Questo processo era stato previsto già negli anni Ottanta da alcuni economisti post-schumpeteriani: nel capitalismo anglosassone e in quello renano – a cui appartenevamo – le imprese avrebbero subito un progressivo processo di disintermediazione, se non di disintegrazione. Ed è esattamente ciò che è avvenuto: la dimensione media delle imprese continua a ridursi da oltre quarant’anni.

Da altre parti la traiettoria è stata diversa.

In Asia sono nati o consolidati grandi monopoli di Stato, soprattutto in Cina. È il “capitalismo sotto sorveglianza del partito”: gruppi giganteschi che vivono e prosperano finché mantengono l’appoggio politico. Ogni tanto ne colpiscono uno, lo mandano in prigione, lo rimpastano, e poi lo rilanciano. È un capitalismo molto diverso, ma comunque solido.

E l’Italia come si colloca in questo scenario?

Un tempo eravamo “i primi degli ultimi e gli ultimi dei primi”: riuscivamo a restare a metà strada tra i grandi paesi industriali e quelli in ritardo. Oggi stiamo scivolando in basso. Certo, abbiamo un giardino straordinario di piccole e medie imprese, spesso nate laddove è finita la mezzadria: pensiamo all’Emilia-Romagna o alla pianura padana, dove la fine delle grandi aziende agricole ha favorito la nascita di migliaia di piccole realtà artigiane e manifatturiere. È questo tessuto che ancora regge buona parte dell’Italia. Ma manca il livello superiore, quello dei grandi campioni nazionali.

In questo quadro, che ruolo aveva Mediobanca nel passato?

Mediobanca è stata a lungo la grande banca d’investimento per le imprese italiane, soprattutto quando le banche pubbliche erano ancora attive. Era guidata da Cuccia, un oligarca intelligente e silenzioso, capace di governare gli equilibri del capitalismo. Dopo la sua delegittimazione e con la stagione delle privatizzazioni, quel modello è crollato. Maranghi, che lo seguì, rifiutò grandi offerte pur di mantenere indipendenza, ma era evidente che l’epoca si stava chiudendo. Con loro è finito il grande capitalismo italiano, che nessuno ha ancora raccontato fino in fondo.

Oggi cosa resta?

Resta un intreccio tra rendita immobiliare ed editoria. Paradossalmente è proprio la rendita fondiaria a comandare in Mediobanca. Quanto a Mps, era una banca con cinquecento anni di storia, profondamente legata a Siena, tradizioni altissime. È stata distrutta dalle privatizzazioni del governo Prodi e poi ricostruita con fatica. Poi, grazie a delle brave persone come Lovaglio, si sta tirando su. Io avrei preferito rifare una banca cooperativa di territorio, utile alle piccole imprese. Invece si è scelto di trasformarla in una banca capitalistica e di lanciarla in questa avventura. Ma in fondo ognuno fa quello che vuole, mica siamo in Cina.

Come valuta il ruolo del governo in questa operazione?

L’attore non è tanto il ministro Giorgetti, quanto i consulenti che lo circondano. L’obiettivo implicito è anche arrivare a Generali. Ma è un disegno contraddittorio: da un lato ci si dichiara europeisti, di essere in linea con Draghi, ma poi si fa qualcosa di totalmente contrario a ciò che dovrebbe fare un gruppo assicurativo intereuropeo, visto che si difende l’italianità di un gruppo che dovrebbe avere respiro internazionale.

Perché contraddittorio?

Perché nella tradizione le assicurazioni sono sempre state sovranazionali. Io stesso ho iniziato la mia carriera studiando le compagnie austro-ungariche, con azionisti armeni, ebrei, greci. Generali spostò la sede a Roma durante la Prima guerra mondiale, la RAS a Vienna: era normale. Oggi invece si parla di Europa e poi si vuole che Generali resti “italiana”. È un atteggiamento miope.

E secondo lei, dove andrà Generali?

Dipenderà da come si muoverà la riassicurazione mondiale. Abbiamo avuto le guerre, abbiamo avuto l’incendio di Los Angeles, abbiamo avuto delle catastrofi. Chiunque sa qualcosa di storia delle riassicurazioni sa cosa è successo con l’incendio di Costantinopoli. Sono eventi che hanno sempre ridisegnato gli equilibri. Oggi i colossi della riassicurazione sono a Londra, Monaco, Zurigo. Ma se leggo i bilanci italiani, non trovo una riga su questi temi. Neanche nelle relazioni dell’Ania. Solo Panetta, prima di diventare governatore della Banca d’Italia, disse qualcosa a riguardo. Ed è preoccupante: senza alleanze sovranazionali, non si affrontano i rischi catastrofici globali. E poi si sciacquano la bocca con l’Unione Europea…

Quindi manca una visione di lungo periodo?

Esatto. Non sanno dove andare e sono circondati da persone incompetenti. Ma ascoltate Draghi o no? Lo dico io che sono stato sempre critico su Draghi. Oggi dice chiaramente che dobbiamo superare i dazi interni, che servono imprese transfrontaliere. Ma li sanno interpretare i segnali o no? Uno che si occupa di economia mondiale dovrebbe interpretarli. E i segni parlano di una tempesta che sta arrivando, ma qui si gioca con piccole fusioni locali, con tutto il rispetto per Lovaglio perché veramente ha fatto un miracolo a mettere insieme questa operazione, ma affronta una vetta impossibile. È come voler scalare il K2 senza attrezzatura né sherpa.

E nel resto d’Europa?

Le compagnie si stanno muovendo per trovare alleanze e rafforzare la riassicurazione. Le guerre di oggi, dal Myanmar, all’Ucraina, all’Africa, colpiscono soprattutto i civili, e questo significa che i rischi sistemici aumenteranno. Servono grandi gruppi capaci di reggere queste tempeste.

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