Ogni volta che Mario Draghi pontifica sul futuro dell’Europa, sui quotidiani italiani viene osannato, su quelli europei guadagna qualche articolo in taglio basso e sul Wall Street Journal e sul Financial Times qualche striminzita colonnina.
Fatta questa premessa, che qualcosa vorrà pur dire, lunedì Draghi ha tenuto un discorso a Bruxelles, nell’ambito del convegno “Conferenza di alto livello – Un anno dopo il rapporto Draghi: cosa è stato realizzato, cosa è cambiato”.
E subito viene da chiedersi a quale titolo abbia parlato. Quale sia la legittimazione democratica che gli ha consentito di affermare che «I cittadini e le imprese europee apprezzano la diagnosi, le priorità chiare e i piani d’azione» Li ha consultati? Si è presentato ad un’elezione con il suo rapporto nel programma? Non ci risulta.
Risulta invece che quel rapporto del settembre 2024 abbia ricevuto un’accoglienza positiva da parte della Commissione (per forza, l’avevano chiesto loro…), che lo ha integrato nelle sue linee guida politiche e nel “Competitiveness Compass” del gennaio 2025, ma non ha ottenuto un endorsement esplicito o una risoluzione formale dal Consiglio. Che è il luogo dove davvero si decide nella UE. E anche questo qualcosa vorrà pur dire.
Il Parlamento europeo ha discusso il rapporto il 17 settembre 2024, con Draghi che lo ha presentato in aula, e ha riscosso apprezzamento da parte di diversi gruppi politici (come Socialisti, Liberali, Verdi e Popolari), considerandolo una base per la nuova legislatura.
Credo converrete che serva un minimo di legittimazione in più per avventurarsi in prescrizioni del tipo «troppo spesso si trovano scuse per la nostra lentezza. Diciamo che è semplicemente il modo in cui L’UE è costruita. Che un processo complesso con molti attori deve essere rispettato. A volte l’inerzia viene persino presentata come rispetto dello Stato di diritto. Io credo che questa sia una forma di autocompiacimento. I concorrenti negli Stati Uniti e in Cina sono molto meno vincolati, anche quando agiscono nel rispetto della legge. Continuare come sempre significa rassegnarsi a restare indietro. Un percorso diverso richiede nuova velocità, scala e intensità. Significa agire insieme, non frammentare i nostri sforzi. Significa concentrare le risorse dove l’impatto è maggiore. E significa ottenere risultati in mesi, non in anni.»
Tutto molto bello, avrebbe detto il compianto Bruno Pizzul, ma vogliamo far passare questi epocali cambi di paradigma attraverso la volontà popolare, o se la suonano e se la cantano da soli Ursula, Mario e quattro compagni di merende di Bruxelles?
Degne di nota e spesso condivisibili le sue linee guida – anche abbastanza dettagliate – sulle nuove tecnologie, sulla riduzione del costo dell’energia, sulla deregolamentazione.
Ma, durante la lettura, sorge spontanea sempre la stessa domanda: quei problemi da chi e quando sono stati generati? Da qualche marziano atterrato sulla Terra nei primi anni ’90 a farci credere che la Ue sarebbe stato il Bengodi? Facciamo questa ipotesi perché manca quasi sempre il soggetto.
Clamoroso l’esempio della crisi del settore automobilistico: «La scadenza del 2035 per le emissioni zero allo scarico era pensata per innescare un circolo virtuoso: obiettivi chiari avrebbero stimolato gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica, ampliato il mercato interno, spronato l’innovazione in Europa e reso i modelli elettrici più economici. Si prevedeva che le industrie adiacenti (batterie, semiconduttori) si sarebbero sviluppate in parallelo, sostenute da politiche industriali mirate. Ma ciò non è avvenuto.»
“Era pensata” da chi? Chi “ha previsto” cose che non sarebbero mai avvenute e puntualmente non sono avvenute. Cos’è quella forma impersonale (…si…) dietro quale ci si nasconde?
E se non è avvenuto nulla di quanto improvvidamente prefigurato, nessuno deve chiedere scusa? Passa tutto in cavalleria?
In un sussulto di realtà ha ammesso che ci sono dei Trattati da rispettare e eventualmente riformare prima di fare tutta la bella rivoluzione che propone. “Anche senza modifiche ai trattati, l’Europa potrebbe già andare molto oltre», specifica, ricordandosi che ci sono dei limiti che al momento vanificano il suo libro dei sogni.
Suona davvero beffardo sentirsi dire che nel 2025 che «attenersi rigidamente all’obiettivo del 2035 potrebbe rivelarsi irrealizzabile—e rischia di consegnare quote di mercato ad altri, soprattutto alla Cina». Dopo 5 anni di Green Deal che prometteva ben altro e, nel frattempo, l’intero settore automotive europeo terremotato. Chi paga?
Oggi il mantra dominante è quello della scala dimensionale. Dobbiamo essere grandi, enormi, per poter competere efficacemente. Ma, banalmente, non è sempre così. Altrimenti non si capisce come la Corea del Sud, stretta tra i giganti giapponese e cinese, sia uno dei Paesi più competitivi al mondo. Molto spesso bisogna essere snelli e agili.
Ma Lui ormai ha preso il volo, usando toni imperativi si preoccupa appena di notare che «questo percorso infrangerà tabù di lunga data. Ma il resto del mondo ha già infranto i propri. Per la sopravvivenza dell’Europa, dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima e rifiutarci di essere frenati da limiti autoimposti».
“Dobbiamo fare” (Quando? Chi?!) Lo faremo quando voteremo il rapporto come programma di governo, gentile Presidente Draghi, e respingiamo al mittente l’affermazione che «i cittadini europei chiedono che i loro leader alzino lo sguardo verso il destino comune europeo e comprendano la portata della sfida».
Saremmo curiosi di capire dove l’ha ascoltata questa “richiesta dei cittadini europei”. A noi risulta che del “destino comune europeo” ai cittadini interessa il giusto, cioè nulla. Anzi, i cittadini cominciano a sospettare che sia proprio quel “destino” la causa di molti dei loro attuali problemi.
E non ci venga a dire che bisogna fare in fretta («solo l’unità d’intenti e l’urgenza della risposta dimostreranno che sono pronti ad affrontare tempi straordinari con azioni straordinarie»), perché l’ultimo “fate presto” è costato all’Italia quasi tre anni di recessione. E alla Bce, c’era lui come Presidente.