Ci ho passato la mia vita professionale, ma non credo che i giornali influenzino davvero le opinioni. Penso che le opinioni diffuse, però, influenzino i giornali che si trovano a essere inconsapevole riflesso delle convinzioni profonde e non dichiarate di chi li legge e anche di chi li ignora.
Pensavo a questo sfogliando le pagine del Corriere della Sera sulla morte di Giorgio Armani, e anche nei giorni scorsi, leggendo i ricordi di un altro morto noto, Emilio Fede.
Guardiamo le scelte del Corriere che – ribadisco – non vanno interpretate come un modo di determinare la nostra memoria di Armani, quanto come il tentativo di cogliere il sentire diffuso sul personaggio.
Apertura in prima pagina: “L’abbraccio del mondo al signore della moda”.
Già qui c’è una abdicazione: il Corriere rinuncia a proporre una sua sintesi originale di un creativo e imprenditore con oltre mezzo secolo di carriera.
Qui c’è forse la prosecuzione inconscia del rispetto con cui si è trattato da sempre un grande milanese (come milanese è il Corriere) e un ancor più grande inserzionista che andava riverito e non raccontato: dunque muore Armani e il Corriere ci dice che il resto del mondo se ne è accorto.
Racconta gli applausi, non lo spettacolo.
Anche gli altri titoli interni raccontano l’inconscio del giornalista collettivo del Corriere (e forse del mondo che rappresenta) più che Armani in sé: “Al lavoro fino all’ultimo – L’acquisto della Capannina e gli abiti per la sfilata dei 50 anni di moda da visionare. Così Giorgio Armani ha detto addio”.
Qui c’è – esplicito anche se non dichiarato – una visione della vita e del lavoro: un uomo di 91 anni che non riesce a staccarsi dall’azienda neppure nei suoi ultimi giorni di vita, che la mette al centro di ogni sua giornata, che ne ha voluto mantenere un controllo assoluto invece che farla evolvere e crescere (come fanno le startup americane) con l’ingresso di capitali ed energie fresche, è un modello di virtù calvinista da celebrare?
O la fase finale di Armani è una storia triste, di solitudine, di vuoti riempiti con il potere e la compiacenza, con l’azienda a surrogare altri affetti?
Il Corriere sceglie senza incertezze la prima lettura: Armani è un modello perché ha lavorato fino al momento della morte e perché con i suoi miliardi si è potuto comprare i ricordi di gioventù, il locale La Capannina, dove ballava da ragazzo.
Non è così ovvio che un uomo di successo che gestisce in questo modo il proprio crepuscolo, stringendo le leve del potere e spendendo le sue ricchezze per togliersi sfizi invece che restituirle alla società con la filantropia all’americana, sia un modello da celebrare. Ma per il Corriere è così.
Andiamo avanti.
Pagina successiva: “Re Giorgio, il visionario che reinventò la giacca e che la regalò alle donne”. Anche qui il giornalista collettivo del Corriere ci dice molto sulla sua mentalità, più che su quella di Armani: lo stilista è un sovrano, e i sovrani si venerano, si omaggiano, non si analizzano o discutono (a meno di non ghigliottinarli, se cadono in disgrazia).
E poi: Armani non è un imprenditore di successo, è un generoso artista che alle donne ha “regalato” la giacca.
Il sottinteso è che Armani abbia fatto un favore al genere femminile, un gentile omaggio, invece che aver intercettato una disponibilità economica e una domanda inespressa.
Comunque, il punto non è quello che Armani ha fatto, ma quello che il Corriere ci dice che ha fatto. Ha “regalato” bellezza. E per questo merita i tributi che ogni re deve ricevere dai sudditi.
Amori e tabù
Arriviamo alla parte più interessante: l’omosessualità.
Armani era gay, ma non ha mai voluto sottolineare questo aspetto della sua biografia ancorché fosse arcinoto e perfino esibito. Non ho idea se fosse una questione di ipocrisia borghese, di perbenismo verbale, o forse una sottile dimostrazione di potere: ottenere che l’interlocutore pubblico ignorasse o fingesse di ignorare un aspetto così centrale e vistoso. Spingere i giornali a glissare, a cercare perifrasi (“l’amico speciale”, “il braccio destro insostituibile”…) non è un costante esercizio di potere?
Vediamo infatti il Corriere: “Sergio, Leo e l’anello salvato dalle fiamme. La sorella era la sua musa”. Questo titolo è, a modo suo, una sintesi perfetta.
Sergio Galeotti è stato il primo, mai dimenticato, amore di Armani, quello conosciuto alla Capannina (poi acquistata in punto di morte) e morto di Aids nel 1985. Il New York Times – all’epoca – lo presentava solo come “business partner” di Armani e parlava di un attacco di cuore seguito a una leucemia: all’epoca, ma anche oggi tutto sommato, di certe cose era meglio non parlare.
E poi “Leo”, che è Pantaleo Dell’Orco, “suo amore e braccio destro”, si legge in una didascalia del Corriere, che forse mai sarebbe stata pubblicata in quei termini con Armani vivo.
In una recente intervista del 2024 ad Aldo Cazzullo, sempre sul Corriere, a proposito di Dell’Orco, Armani dava una risposta che rende evidenti una quantità di sfumature e complessità che scompaiono nei ritratti celebrativi post-mortem:
Quindi lei ora è innamorato?
«No, sono un po’ indifferente a quello, perché faccio i conti e dico: è inutile essere innamorato e dare poco spazio al tuo amore, perché lo spazio non ce l’ho. Salvo l’affetto profondo per Leo Dell’Orco, che vive da anni insieme a me, e rappresenta la persona a me più vicina».
Vale la pena notare anche che – nella titolazione e nel pezzo su “la sfera privata”- si replicano tutti i cliché di quel giornalismo patriarcale tanto spesso stigmatizzato dalle femministe su Instagram: la sorella Rosanna esiste solo in funzione del patriarca – la sua “musa” – la responsabile della comunicazione Anoushka Borghesi non è una professionista, ma “quasi come una figlia” (non sul piano ereditario, si può immaginare). Il fatto che l’articolo sia scritto da una donna dimostra quanto questa narrazione sia interiorizzata dal giornalista collettivo.
Merita una menzione anche l’articolo sulle reazioni degli amici: “Sono incredula, per me era eterno – Il dolore di Donatella Versace”.
Qui il giornalista collettivo ci dice che la morte è comunque da trattare come un evento rimovibile dal racconto di un’esistenza: una battaglia che si può vincere ma che – sorpresa sorpresa – ogni tanto si perde, una eventualità che riguarda soltanto i normali, mentre le icone vivono per sempre, in un modo o nell’altro. L’immortalità non è questione di fede, ma di successo. O, forse, soltanto di soldi.
Identità e capitalismo
I pezzi del Corriere sull’azienda sono i più sobri ma anche i più rivelatori dell’idea di capitalismo che permea il giornale della capitale economica d’Italia, quella che si definisce l’unica città davvero europea.
Occhiello di pagina 10: “La strenua difesa dell’indipendenza e della propria identità ha prevalso sull’idea di fare alleanze per creare un polo del lusso”.
Quindi, si deduce, se Armani è un modello di successo da celebrare e imitare, vanno ignorate centinaia di editoriali e commenti pubblicati sullo stesso giornale e su molti altri che denunciano il nanismo delle imprese italiane, la miopia dei loro fondatori che preferiscono mantenere il potere assoluto sacrificando le possibilità di crescita, e che così rendono le loro imprese al massimo succulente prede per i grandi gruppi che aspettano – appunto – la morte del patriarca per avanzare.
Al giornalista collettivo, in fondo, è molto più congeniale omaggiare un padrone che discutere le performance di un manager, meglio raccontarne le gesta che studiare i numeri di un business plan. Meglio usare metafore per raccontare il controllo di Armani sull’azienda che confrontarlo con gli approcci contemporanei di corporate governance.
Segue una paginata nera – a pagamento – che è a modo suo una sintesi onesta: “In questa azienda ci siamo sempre sentiti parte di una famiglia”, inizia il testo, che è firmato “I dipendenti e la sua famiglia”. Come fossero tutti sullo stesso piano, gli operai e gli eredi, le sartine e i top manager, anche se sono questi ultimi che di sicuro hanno il controllo della comunicazione e del budget per comprare una pagina del Corriere.
Anche nel giorno della morte di Armani, insomma, gli articoli su Armani si confondono con le inserzioni di Armani.
(Estratto da Appunti)