Da quando Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato come 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America, il suo “amico” Vladimir Putin si è già assicurato importanti conquiste strategiche. Il presidente russo, ha fissato i termini dei negoziati in base agli obiettivi per i quali ha lanciato l’”Operazione Militare Speciale” contro l’Ucraina. Tra queste un cessate il fuoco soltanto in cambio di ampie concessioni territoriali da parte dell’Ucraina, tra cui Donbas e Crimea – senza cedere di un millimetro sulle sue ambizioni imperialistiche.
Venerdì prossimo, 15 agosto, il presidente Trump incontrerà il presidente russo Vladimir Putin in un vertice a due in Alaska, probabilmente ad Anchorage, territorio che fu venduto dagli zar agli Stati Uniti nel 1867 e facente parte dell’Artide, l’ampia regione geografica dell’emisfero boreale della Terra circostante il polo Nord, divenuta in questi ultimi anni scenario di competizione geostrategica tra le potenze mondiali.
Il presidente Trump è convinto che la guerra di aggressione russa contro l’Ucraina possa risolversi con uno scambio di territori, per altro non meglio identificati. Precisando che, “in caso di mancata intesa, augurerà in bocca al lupo a Putin e Zelensky per i combattimenti futuri”. Una palese minaccia contro il presidente Zelensky, di interrompere gli aiuti statunitensi se, come ha preannunciato, non cederà i territori pretesi da Mosca, poiché la costituzione dell’Ucraina glielo impedisce.
Minaccia che conferma a stretto giro la dichiarazione fatta il 10 agosto dal vicepresidente J.D. Vance: “la Casa Bianca vuole smettere di finanziare il conflitto in Ucraina”. Una manovra di accerchiamento e logoramento del presidente ucraino, che il vice di Trump e il Segretario della Difesa, Pete Hegseth – entrambi senza alcuna competenza diplomatica e strategica – hanno sistematicamente portato avanti, bloccando e rallentando l’invio degli aiuti all’Ucraina approvati dal congresso americano.
Il vertice si svolgerà senza la partecipazione dello Stato aggredito – l’Ucraina – e senza alcuna rappresentanza europea, garantendo al Cremlino il controllo completo sull’agenda, delegittimando Kyiv, i suoi alleati europei e tutte quelle nazioni che credono ancora nel diritto internazionale.
Le modalità di organizzazione, la location prescelta, l’aspirazione del presidente americano di aggiudicarsi il Premio Nobel per la pace, e le dichiarazioni rilasciate dal presidente Trump durante l’incontro con la stampa che hanno preceduto il summit artico, hanno inferto un ennesimo duro colpo alle leadership europee e al presidente dell’Ucraina Zelensky, evidenziando che la loro influenza nel plasmare gli eventi nel continente e soprattutto nelle negoziazioni per la fine del conflitto è marginale, trascurabile.
La scelta dell’Alaska come sede delle trattative di pace è un’altra vittoria strategica per il presidente Putin: un incontro sul suolo americano, lontano dall’Europa e dal campo di battaglia ucraino, ne certifica la loro ridotta rilevanza, ma soprattutto riabilita e legittima geopoliticamente il capo del Cremlino come leader mondiale. Nonostante le sanzioni occidentali, il presidente Putin sta usando questo vertice per spingere Washington a bloccarle o alleggerirne gli effetti, per cementare la sua legittimità internazionale e la grandezza imperiale della Russia, pur mantenendo ferme le sue inaccettabili pretese territoriali e politiche di ingerenza nei confronti dello Stato ucraino.
Per dirlo con le sue parole, il presidente Trump si presenta a questo vertice “senza avere molte carte in mano”: con scarse leve di coercizione nei confronti del suo omologo russo e ridotti spazi di manovra, avendo ripetutamente delegittimato il presidente Zelensky e rilanciato la propaganda del Cremlino sulle cause scatenanti del conflitto; bloccato dalle promesse elettorali di porre fine rapidamente alla guerra e dalla mancata condivisione con gli alleati europei degli obiettivi da raggiungere per una pace giusta e duratura; circondato da un alone di insinuazioni sulle sue precedenti collusioni con la Russia, che emergono sempre più prepotentemente. Allo stesso tempo, il suo sostegno diplomatico tra gli alleati si sta erodendo rapidamente. I leader europei stanno apertamente premendo per sanzioni più dure contro la Russia e maggiori garanzie di sicurezza per l’Ucraina, avvertendo che qualsiasi accordo unilaterale con il presidente Putin sarebbe pericoloso e destabilizzante.
Il Generale prussiano Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz, nella sua opera pubblicata nel 1832 “Della guerra”, composta di otto libri, ancor oggi considerata il più importante trattato di strategia militare mai scritto, tuttora adottato come libro di testo da tutte le accademie militari del mondo, negli studi di scienza politica e le altre scienze umane, scriveva: “L’aggressore è sempre amante della pace, egli preferirebbe conquistare il tuo Paese senza opposizione”.
Pertanto, il presidente Putin, che si prepara alla pace continuando a lanciare missili sulle città ucraine e a pianificare nuove offensive, ha tutto l’interesse nel sedersi al tavolo delle trattative con il presidente della super potenza mondiale, ed è certamente il più avvantaggiato nell’affrontare questi colloqui “artici”.
Che cosa potrebbe emergere, allora, dai negoziati in Alaska? Alcuni risultati sono già evidenti, altri sembrano plausibili.
Il presidente russo si è già assicurato il più importante risultato dall’inizio dell’aggressione militare contro l’Ucraina: il ripristino della sua personale legittimità diplomatica.
L’incontro sul suolo americano sferra il colpo di grazia alla Corte Penale Internazionale (CPI), che il 17 marzo 2023 ha spiccato due mandati di arresto nei confronti del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e di Maria Alekseevna L’vova-Belova, commissaria presidenziale per i diritti dei bambini in Russia; rafforza la leadership, interna e internazionale del capo del Cremlino e aiuta la Russia ad uscire dal suo isolamento.
In cambio di un accordo di cessate il fuoco, che dovrebbe portare all’interruzione dei bombardamenti contro i civili, che comunque la Russia violerebbe piuttosto prima che dopo, otterrebbe in modo significativo, e concordato con gli Stati Uniti, il riconoscimento formale di nuove annessioni territoriali, la rinuncia dell’Ucraina all’adesione NATO e l’allentamento o la revoca delle sanzioni occidentali.
Da parte sua, il presidente Trump sta inseguendo un accordo di pace rapido e di alto profilo, per mantenere le sue promesse elettorali e ottenere una sua prima vittoria politica in patria.
Eppure tale diplomazia personale, in assenza di un ampio sostegno internazionale, rischia concessioni unilaterali a Mosca da parte di Washington, per le quali non possiede alcuna prerogativa politica, nessun mandato internazionale o da parte delle istituzioni ucraine, che aumenterebbero le dimensioni della profonda frattura strategica creatasi tra gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump e l’Europa, gli alleati NATO ed il resto del mondo democratico.
Quando la storia guarderà indietro al vertice dell’Alaska, vedrà l’Ucraina e l’Europa non come attori direttamente coinvolti nella crisi determinata dall’”asse del male” delle autocrazie, ma come spettatori abbandonati al proprio destino dal loro principale alleato degli ultimi 80 anni, che ha improvvisamente cambiato fronte.
I membri del Patto Atlantico, che continuano a sostenere l’Ucraina, vengono lasciati chiusi fuori dalla stanza a leccarsi le ferite della guerra commerciale scatenatagli contro dall’azionista di maggioranza con i suoi mutevoli dazi, sotto la minaccia di chiudere il suo ombrello di difesa, divenuto sempre più evanescente.
La scomoda verità è che il futuro dell’Ucraina, e forse dell’Europa stessa, potrebbe essere deciso da due controverse ma per certi versi simili personalità cui sono state affidate, più o meno consapevolmente e volontariamente, le sorti del mondo. Due uomini che si incontrano a migliaia di chilometri di distanza dalle capitali dei 50 Stati che costituiscono il Continente europeo, per ridisegnare un nuovo mondo caratterizzato dall’incertezza, dall’insicurezza e dall’uso della forza militare.
Se gli echi della Conferenza di Yalta del 1945 sembrano sgradevolmente vicini, è perché la storia ha l’abitudine di ripetersi, anche se con modalità diverse.
Ma la Conferenza di Yalta, svoltasi dal 4 all’11 febbraio 1945 in Crimea, fu un incontro cruciale tra i leader delle principali potenze alleate: Franklin D. Roosevelt (Stati Uniti), Winston Churchill (Regno Unito) e Iosif Stalin (Unione Sovietica). L’obiettivo principale fu definire le strategie per sconfiggere i nemici del “Patto d’Acciaio” che scatenarono la Seconda Guerra Mondiale, e stabilire linee guida condivise per gli assetti politici internazionali sul dopoguerra
L’ideatore di quel vertice, che nei documenti segreti veniva identificato con il nome in codice “Argonaut” (Argonauta), fu il presidente statunitense, Franklin Delano Roosevelt, che aveva come faro la visione di un mondo democratico (nonostante le resistenze dell’Unione Sovietica). Roosevelt fu l’ispiratore del progetto di sostituire la litigiosa Società delle Nazioni con una nuova organizzazione internazionale per la sicurezza collettiva, ma morì prima della sua effettiva costituzione. l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), il cui Statuto venne sottoscritto il 26 giugno ed entrato in vigore 24 ottobre 1945, nacque dalle sue idee e dai valori democratici che esprimevano gli Stati Uniti e manifestate in quel vertice, che furono portate avanti dai suoi ex collaboratori.
Oggi quei valori, quelle istituzioni internazionali, vengono calpestati e messi a tacere da entrambi i successori dei leader di Yalta che si riuniscono al vertice in Alaska.