In Italia il diritto non resta mai fermo e dritto ma viene spostato e piegato in base alle pulsioni contingenti. Intendiamoci. Le cose cambiano e se il diritto è materia viva le deve riflettere. Ma un eccessivo ondeggiare della giurisprudenza, perfino costituzionale, produce incertezza. E nell’incertezza le imprese, soprattutto se fragili e di piccola dimensione, non investono e non crescono quanto potrebbero.
La Consulta ha ritenuto ora, dopo il fallimento della iniziativa referendaria, di tornare su uno dei quesiti bocciati. Ha infatti considerato inconstituzionale il massimale imposto dal legislatore al risarcimento dovuto ai lavoratori delle piccole imprese che hanno subito un licenziamento ingiustificato. Attenzione, qui non si parla di licenziamento discriminatorio e come tale nullo perché in questo caso la sanzione consiste nella continuità del rapporto di lavoro. La tesi della Corte è che il giudice deve disporre di un margine più ampio per valutare la congruità della tutela del lavoratore e della deterrenza verso il datore di lavoro. Dobbiamo peraltro riconoscere come da tempo prevale la crisi della offerta di lavoro, ovvero la difficoltà di reclutamento da parte delle imprese nonostante i molti inattivi. In questo contesto cresce la tentazione di sostituire il lavoro umano con le nuove macchine e la maggiore deterrenza ai pur rari licenziamenti potrebbe essere solo motivo di rattrappimento.
Ora comunque si tratta di riscrivere la normativa e non sembra impedita la ricerca di nuove certezze. Si tratterà di individuare criteri chiaramente definiti e tali da consentire al giudice di apprezzare la forza economica della pur piccola impresa e la debolezza del contraente licenziato secondo una forbice meno ristretta tra un minimo e un massimo. Il risultato dovrà essere tale da non frenare la possibilità per l’impresa di diventare più grande.