Non è un dialogo tra sordi, perché l’interlocutore che si ostina a non voler ascoltare è uno solo: il governo d’Israele. Che ha subito rispedito al mittente, per mano e con nota del ministero degli Esteri, l’appello sottoscritto da 25 Paesi, tra cui l’Italia.
Non il solito appello di chiacchiere e di firmaioli alla ricerca di un quarto d’ora di pubblicità, perché la richiesta è invece semplice, chiara, essenziale: “La guerra a Gaza finisca. Ora”. A stretto giro la risposta delle autorità israeliane: “L’appello va rivolto a Hamas”.
A scanso, perciò, di pretestuosi equivoci, è bene ricapitolare le cose per capire come mai, sull’onda delle operazioni militari dello Stato ebraico nella Striscia, il governo di Benjamin Netanyahu agli occhi del mondo -e non solo delle nazioni appellanti, quasi tutte, a cominciare dalla nostra, tradizionalmente vicine a Israele- sia passato dalla parte del torto pur avendo ragione in partenza.
La dichiarazione di guerra ha una data che ancora sanguina: 7 ottobre 2023. Quel giorno di barbarie un commando di Hamas entrò all’improvviso in territorio israeliano uccidendo quasi 1.300 innocenti (oltre la metà civili) e sequestrando e torturando più di 200 persone.
Fu un abominio che non provocò alcuna mobilitazione di piazza in nessun Paese dell’universo. Come se quella strage degli innocenti fosse di serie B rispetto ai tanti massacri di ieri e di oggi.
Da allora l’esercito di Tel Aviv si è dedicato alla legittima caccia dei terroristi assassini, decapitando i vertici di Hamas e distruggendone buona parte della struttura. Ma nel farlo, non s’è curato di distinguere le responsabilità tra autori e complici del 7 ottobre da una parte e del tutto estranea popolazione a Gaza dall’altra. Un approccio che da più parti è stato definito da tabula rasa, e che dall’inizio del conflitto ha causato migliaia di morti (c’è chi calcola quasi 60mila), di feriti e affamati palestinesi. In gran parte civili e almeno la metà di essi bambini o minori.
Per quanto Hamas sia adusa alla propaganda e alla menzogna anche nel diffondere dati non verificabili, troppe immagini e testimonianze d’ogni nazionalità denunciano da troppo tempo questa realtà inaccettabile, qualunque sia il punto di vista a giudicarla.
Del resto, è di pochi giorni fa l’ennesimo “errore” -così l’hanno definito e liquidato le autorità israeliane-, qual è stato l’attacco all’unica chiesa cattolica a Gaza (tre morti e diversi feriti, parroco Gabriel Romanelli incluso). Ed ennesima richiesta di fermare il conflitto, ha tuonato Papa Leone con parole che interpretavano l’indignazione di credenti e non.
Adesso arriva l’appello dei 25 Stati che, ricordando il perdurante rapimento degli ultimi ostaggi ancora in vita da parte di Hamas -cioè non tacendo sull’atto disumano all’origine della guerra-, chiede la fine della “distribuzione a goccia degli aiuti umanitari” e dello “sfollamento forzato della popolazione”.
Dunque, ripartire da acqua e cibo e fine del conflitto. Adesso. Lo richiede una parte significativa del mondo libero, a cui Israele appartiene.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova
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