È iniziato il processo a carico di Mark Zuckerberg e di altri dirigenti, attuali ed ex, di Meta Platforms, con una class action da 8 miliardi di dollari intentata da investitori individuali e fondi pensione sindacali. Il procedimento prende le mosse dal noto scandalo del 2018 legato alla violazione della privacy da parte della società di consulenza politica Cambridge Analytica.
IL CASO CAMBRIDGE ANALYTICA IN BREVE
Cambridge Analytica era una società britannica di consulenza politica specializzata nell’analisi dei dati degli elettori e nella profilazione psicografica. Legata a Stephen Bannon, ex stratega politico di Trump, è diventata nota nel 2018 per aver ottenuto – in modo improprio, ovvero pagando uno sviluppatore di app su Facebook – i dati personali di circa 87 milioni di utenti del social network.
Questi dati furono usati da Cambridge Analytica per influenzare le preferenze politiche degli elettori statunitensi, in particolare durante la campagna presidenziale del 2016 che portò Trump alla presidenza.
DATI USATI SENZA CONSENSO
Secondo gli azionisti, Meta non avrebbe informato adeguatamente i mercati sui rischi derivanti dall’uso improprio dei dati personali degli utenti di Facebook da parte della società. In particolare, si contesta che l’azienda non abbia rispettato un ordine di consenso stipulato con la Federal Trade Commission (Ftc) nel 2012, che imponeva limiti stringenti alla raccolta e condivisione delle informazioni personali senza consenso esplicito.
Nonostante l’accordo, Facebook avrebbe continuato a vendere dati sensibili a partner commerciali, violando le disposizioni pattuite. Inoltre, avrebbe rimosso elementi informativi essenziali dalle impostazioni sulla privacy della piattaforma.
CONSEGUENZE LEGALI E MULTE MILIARDARIE
Per queste violazioni, Meta ha dovuto versare una sanzione record da 5,1 miliardi di dollari alla Ftc – la multa più alta mai imposta dall’autorità americana per violazione della privacy -, a cui si aggiungono ulteriori multe in Europa e un accordo da 725 milioni di dollari con gli utenti della piattaforma, coinvolti nella controversia.
Ora gli azionisti chiedono che siano Zuckerberg e altri ex dirigenti a coprire quei costi legali, stimati in oltre 8 miliardi di dollari complessivi, ritenendo che la dirigenza abbia agito in modo negligente nei confronti della società.
LE TESTIMONIANZE TRA ACCUSE E DIFESA
Il primo testimone del processo, Neil Richards, esperto di privacy e docente di diritto alla Washington University, ha dichiarato che “le informative sulla privacy di Facebook erano fuorvianti”, appoggiando la tesi degli azionisti. Tuttavia, sotto controinterrogatorio ha ammesso di non poter dire con certezza se l’azienda abbia violato l’accordo del 2012 con la Ftc – una delle accuse principali nel processo.
In difesa della dirigenza, ha testimoniato, tra gli altri, Jeffrey Zients, ex membro del consiglio di amministrazione di Facebook (2018-2020) ed ex funzionario delle amministrazioni Obama e Biden. Zients ha sostenuto che la tutela della privacy fosse una priorità aziendale, pur riconoscendo la necessità di un accordo con la Ftc per superare l’impasse. “Era una cifra enorme, ma era preferibile a uno scontro legale prolungato”, ha affermato.
Alla domanda se il consiglio avesse valutato l’ipotesi di includere Zuckerberg nel patteggiamento, Zients ha risposto che il fondatore era “essenziale per la guida dell’azienda” e che non vi erano prove di un suo diretto coinvolgimento in condotte illecite.
IN ARRIVO LE TESTIMONIANZE DI ZUCKERBERG E THIEL
Il processo, in corso presso la Corte della Cancelleria del Delaware, dovrebbe proseguire fino alla fine della prossima settimana. Tra i testimoni attesi ci sono Mark Zuckerberg, l’ex Chief Operating Officer Sheryl Sandberg, che ha lasciato Meta nel 2022 dopo 14 anni alla guida operativa della società, il membro del consiglio Marc Andreessen e l’ex consigliere e co-fondatore di Palantir, Peter Thiel. Tra gli imputati c’è anche Reed Hastings, co-fondatore di Netflix ed ex membro del consiglio.
La giudice Kathaleen McCormick, nota per aver annullato l’anno scorso il maxi compenso da 56 miliardi di dollari di Elon Musk con Tesla, non emetterà una sentenza prima di diversi mesi. Meta, nel frattempo, aveva cercato di far archiviare il caso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, ma l’istanza è stata respinta, confermando la decisione del tribunale d’appello che permette alla causa di proseguire.