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Elogi e sculacciate a sorpresa di Dimon (JpMorgan)

Jamie Dimon di JpMorgan tra l’Italia e il fattore cinese. L'analisi di Alessandro Aresu.

Jamie Dimon è lo storico CEO di JPMorgan Chase: insieme a Laurence Fink di BlackRock e a poche altre figure, resta uno dei grandi punti di riferimento del mondo finanziario statunitense, per la sua lunga permanenza al vertice (ormai da vent’anni) e l’enorme esperienza che ha accumulato. Da anni Dimon viene indicato come possibile Segretario al Tesoro, ma l’incarico non si è concretizzato nemmeno nell’amministrazione Trump, dove come è noto è andato a Scott Bessent.

Durante la sua recente permanenza in Italia, ha riservato parole di incoraggiamento all’Italia e al governo Meloni e ha svolto un incontro col presidente del Consiglio. Ha elogiato il Paese per l’atteggiamento di vicinanza agli investimenti e ha sottolineato la solidità e la redditività del sistema bancario italiano, citando anche il basso spread BTP-Bund. La stabilità politica, che si misura sempre in termini relativi, oltre che assoluti, è senz’altro considerata oggi un fattore competitivo per chi guarda l’Italia dall’esterno.

Sia nella sua intervista col “Sole 24 Ore” che in altri interventi (in particolare in un luogo di confronto importante come il Reagan National Economic Forum), Dimon ha fornito interessanti e non casuali osservazioni sulla questione cinese, al centro come sempre delle priorità degli Stati Uniti, oltre che sulla “sfida” interna vissuta tanto da Washington quanto da altri luoghi dell’Occidente.

Dimon riconosce anzitutto, con onestà intellettuale, i notevoli progressi compiuti da Pechino negli ultimi quindici anni. Questo percorso secondo Dimon ha posizionato la Cina come leader emergente in settori chiave come la farmaceutica, l’elettronica, ovviamente l’automotive e le tecnologie verdi. Un aspetto evidenziato da Dimon è la strategia di investimento globale della Cina, sottolineando come Pechino abbia puntato sull’Africa e l’America Latina, mentre l’Occidente sia rimasto a guardare.

Nonostante Dimon veda la Cina come un “avversario”, in corrispondenza all’orientamento obbligatorio del pensiero strategico statunitense, ne elogia in ogni occasione la capacità di risolvere i problemi. Al Reagan National Economic Forum ha affermato letteralmente che i cinesi “quando hanno un problema, mettono 100.000 ingegneri a risolverlo”, facendo intendere che alla fine li risolvono e basta, e che si sono preparati per anni ad affrontare le sfide commerciali attuali.

Come prevedibile, Dimon ha poi interpretato la politica dei dazi di Donald Trump come una “sveglia” per gli europei, invitando Bruxelles a superare le paure e a concentrarsi su riforme e competitività. Il banchiere ha osservato che l’Europa si è in qualche modo “auto-paralizzata”, come dimostrato dalla riduzione del PIL pro capite rispetto agli Stati Uniti.

Questa prospettiva è in linea con la preoccupazione più profonda di Dimon, espressa al forum ispirato all’eredità di Reagan. Si tratta non della Cina ma del “nemico interno” degli Stati Uniti, con l’accumularsi di linee di fragilità sul deficit e il debito, insieme alle divisioni sociali. In quel contesto, Dimon ha avuto parole severe soprattutto per l’amministrazione Biden e per l’incapacità di tradurre in pratica, con effetti concreti, gli annunci sulle politiche industriali. Sostenendo gli sforzi sui tagli alla spesa, ha parlato di un governo come Leviatano troppo debole per agire realmente, nei servizi pubblici e nelle infrastrutture, e troppo forte nell’imporre costi inutili agli americani, schierandosi idealmente con la popolazione rurale e delle città interne che non si sente rappresentata dalle politiche governative.

In sintesi, Dimon, oltre a far avanzare un discorso netto sulle capacità cinesi, ci tiene a mostrare che sa “sentire” questa stagione politica-sociale e ha adattato la sua retorica per questo. Non vuole essere catalogato come un membro delle élite che, secondo la classica e insuperata immagine di Christopher Lasch, vengono accusate di “ribellione” contro il popolo. In questo senso, Dimon ha continuato a criticare alcuni aspetti delle politiche di Trump, come le incertezze sul piano commerciale, senza però dimenticare le loro radici economiche, politiche e sociali. Anche in questo posizionamento, resterà però sempre difficile passare dalla teoria alla pratica.

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