Skip to content

Perché c’è spazio per il partito di Musk. Parla Mingardi (Ibl)

Il programma politico di Musk. Le potenzialità. La leadership. Le diversità con Trump. E la storia dei terzi partiti negli Usa, ma questa volta... Conversazione con il direttore dell'Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, docente di Storia delle dottrine politiche

Elon Musk è in rotta totale con Donald Trump e ha annunciato la creazione di un nuovo partito negli Stati Uniti, l’America Party. Che futuro e che prospettive potrebbe avere questa formazione? Lo abbiamo chiesto al direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, docente di Storia delle dottrine politiche,

Tra i punti simbolo di questo nuovo partito ci sono la lotta alla spesa pubblica, la riduzione del debito e dell’intervento statale, l’accelerazione di sviluppi tecnologici e dell’intelligenza artificiale. C’è veramente spazio negli Usa per un partito con simili istanze o Musk farebbe meglio a sostenere singoli candidati (repubblicani o democratici) più in linea con i suoi obiettivi?

A questa domanda fino a qualche anno fa si sarebbe risposto di no in modo pressoché automatico. Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di terzi partiti, che non sono mai andati oltre una posizione residuale. Tutto il sistema americano è bipartitico, dalla politica locale all’elezione del Presidente, e per quanto noi tendiamo a considerare quelli statunitensi dei partiti ‘leggeri’, privi del leggendario radicamento che avevano la Democrazia cristiana o il Partito comunista della prima repubblica, si tratta di coalizioni di interessi molto efficienti, capaci di evolversi nel tempo. Parlo di interessi perché l’articolazione federale degli Usa ha portato molto spesso la politica a interpretare le esigenze dei territori anzitutto. È vero un tempo e lo è ancora oggi.

In che senso?

I democratici (che una volta erano il Sud del Paese) sono le coste, i repubblicani quel che sta al centro: ci sono forti differenze ideologiche ma anche una spaccatura demografica e sociologica “di fondo”. È destra-sinistra ma è anche città-campagna, per intendersi. I terzi partiti sono stati spinti ora dall’emergere di nuovi problemi (penso a Ralph Nader e all’ambientalismo), ora dalla critica verso la politica “ufficiale” (i populisti nel diciannovesimo secolo ma anche Ross Perot negli anni Novanta). C’è poi il caso del piccolo partito libertario, che presentava in modo ideologicamente coerente la filosofia politica più americana della storia. Qualche volta sono andati meglio, qualche volta peggio, ma nessuno di questi partiti ha saputo innescare un riallineamento del sistema politico americano.

Andrà così anche stavolta?

Premetto che ritengo Elon Musk l’imprenditore più straordinario dei nostri tempi e forse non solo, quindi ho un pregiudizio positivo nei suoi confronti. Ma sicuramente qualcosa è cambiato: democratici e repubblicani erano per l’appunto coalizioni di interessi, Reagan lo votavano i libertari ma anche la destra religiosa, Clinton teneva assieme chi voleva la sanità pubblica ma anche pezzi di Wall Street. Leadership forti sono state anche incredibilmente flessibili e inclusive, quando si trattava di propiziare negoziazioni fra i propri supporter. Oggi abbiamo Trump e la filiera Ocasio-Cortez/ Mamdani a New York. Almeno in questo momento, almeno nella comunicazione, le coalizioni si fanno più piccole, si riduce lo spazio della coabitazione di idee, sensibilità, interessi diversi sotto lo stesso tetto. Anche per questa ragione, forse, alle ultime elezioni parte del mondo high tech si è spostato su Trump: le loro istanze a lungo erano state compatibili con l’agenda dei democratici, con il forte interventismo di Biden lo erano di meno. E allora forse un terzo partito non è una fesseria, soprattutto se l’agenda è quella classica di un pezzo del partito repubblicano, che Trump però ha messo fuori dalla porta.

Il sistema statunitense può permettere che una figura come Musk, semplicemente l’uomo più ricco del mondo con affari in settori specifici e con commesse con Starlink e SpaceX, entri direttamente in politica? Ci sono conflitti di interessi?

I conflitti di interesse ci sono ma ci sono anche con i parlamentari che sono azionisti di quelle società. Inoltre, il mondo americano è abituato a un dialogo costante e serrato con gli interessi organizzati, in maniera molto più trasparente che in Europa. Diciamola tutta: se Musk volesse tutelare i suoi investimenti, sarebbe rimasto al fianco di Trump in modo più defilato e furbo, come ha fatto per esempio Peter Thiel, non si sarebbe invischiato nell’avventura del DOGE, non piglierebbe di petto il Presidente come sta facendo ora. Sta rischiando molto e credo che il vero motivo per cui lo sta facendo sia sotto certi aspetti disarmante: è fatto così, ha le sue convinzioni e non trova ragioni per nasconderle, si prende i suoi rischi senza esitazioni. Non potrà mai diventare presidente, perché non è nato in America, e quindi se il partito funziona a un certo punto dovrà trovare un altro front man. Ci sono almeno un paio di repubblicani non trumpiani, Thomas Massie e Justin Amash (questi, già uscito dal partito), che potrebbero svolgere, almeno ad interim, quel ruolo. Ma Musk è imprenditore fino alla punta dei piedi. Non mi stupirei se lui pensasse al partito come fosse un’altra start up.

Trump sostiene che Musk sia “impazzito” per la questione dei sussidi all’elettrico, Musk invece afferma che il problema è solo dell’onerosa legge di bilancio trumpiana. Che idea si è fatto del rapporto, prima idilliaco e poi lacerato, tra i due?

È chiaro che parliamo di due individui che hanno buona opinione di sé, altrimenti non si riterrebbero essenziali per il futuro del mondo. Ma la cosa che li distingue è proprio, uso questo termine nel modo più neutro, l’ideologia. Musk è il figlio di una cultura che negli anni Novanta ha immaginato le tecnologie digitali come uno strumento libertario, un modo per superare il leviatano e sperimentare nuovi schemi politici. Trump era un imprenditore dell’edilizia, da sempre abituato ad avere a che fare con la politica e a negoziare, anche selvaggiamente, con essa, a spremerla quanto più possibile. Trump è “negoziale” in tutto e pensa costantemente a come uscire da una situazione meglio di come c’era entrato. Musk ha un’idea di libertà e progresso che ha mosso la sua carriera imprenditoriale probabilmente di più di quanto non abbia fatto il “demone” dell’avidità. Non voglio darne una visione “angelicata” ma chi ha delle convinzioni può capire che esse non sono sempre e necessariamente sono razionalizzazioni dei propri interessi, possono diventare una delle cose che motivano e orientano l’azione: Musk ha una visione del mondo, Trump no. Lo scontro delle loro due personalità, cui non sono mancati momenti di preoccupante infantilismo, si spiega anche così. Sono due tipi umani diversissimi.

Dalla politica, Musk potenzialmente può ottenere molti vantaggi, ma allo stesso tempo le sue aziende ora rischiano, specie se si scontra con chi il potere lo maneggia da tempo. Cosa sta spingendo Musk a ‘gettarsi nel fango’?

Forse ho già risposto. Le sue convinzioni. Musk ne ha, e di radicate. E la sua fiducia in se stesso, imprescindibile per fare quel che ha fatto, si estende e abbraccia la sua visione delle cose.

Torna su